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Negli Stati Uniti, si sa, per un motivo o per un altro, quasi tutti facenti capo al dio denaro attraverso sponsorizzazioni, presenza di marchi più o meno palesi e simili, si tende a suddividere ogni macro comparto dell’economia facente capo allo star business, per premiare chi all’interno di queste suddivisioni, si comporta meglio degli altri.

Vengono in mente gli Oscar per il cinema, gli Awards per la musica e ultimamente per le Serie TV, ma il paradigma che permette a questa usanza di poggiarsi sulla base più solida, è senza dubbio lo sport. 

La pallacanestro professionistica americana, leggasi NBA da qualche decennio, non viene meno all’enunciato, anzi, se possibile lo amplifica.

Il Most Valuable Player in NBA

Come quasi certamente saprete, uno degli innumerevoli premi più ambiti che si distribuiscono alla fine della stagione cestistica USA è il Most Valuable Player, il titolo di MVP che viene consegnato ai giocatori che più degli altri si sono distinti durante la stagione. 

Il titolo di MVP è nato la bellezza di 65 anni fa, quando, colui il quale divenne poi il primo presidente della NBA, Maurice Podoloff, cominciò a far dialogare le due realtà più importanti della pallacanestro dell’epoca, la BAA e la NBL. 

Da quel momento in poi il giocatore che viene considerato il più forte di ogni stagione regolare, riceve il cosiddetto Maurice Podoloff Trophy.

Giocatori di casa piglia (quasi) tutto

Da quando il premio è stato istituito, nessuno, fino alla stagione 2003/2004, aveva mai ricevuto tale riconoscimento senza avere il passaporto USA, con l’unica parentesi del 1994, quando il nigeriano Hakeem Olajuwon si fece preferire dalla giuria, anche se vi è da rimarcare il fatto che “Hakeem The Dream” aveva il doppio passaporto.

Il primo straniero “puro” a mettere le mani sul trofeo, fu il canadese Steve Nash, attuale head coach dei Brooklyn Nets, che riuscì a vincere il titolo di MVP per due anni di seguito, nel 2005 e nel 2006, quando giocava nei mitici Phoenix Suns. 

Le rivoluzioni portano a nuove rivoluzioni

Per trovare invece il primo giocatore europeo che ha portato a casa il titolo, bisogna arrivare al 2007, quando un giovanotto di Wurzburh, arrivato dalla Baviera per regalare uno storico titolo NBA ai Dallas Mavericks qualche anno più tardi, 2011, aprì la strada ad una vera e propria rivoluzione. 

Già da qualche anno le menti pensanti della pallacanestro americana avevano cominciato ad abbandonare la stantia idealizzazione di un basket prettamente e storicamente ancorato ai vecchi sistemi del “faccio tutto io, perché solo io sono bravo”, ma il tedesco mise le basi per sfondare definitivamente il muro ormai datato di tali preconcetti. 

Dirk Nowitzki non deve essere ricordato solo per avere aperto un’era prettamente ideologica. 

Il suo modo di interpretare la pallacanestro, sia a livello di abnegazione, che di meri movimenti sul campo, portò una ventata nuova nei corridoi delle franchigie NBA, tanto che fu uno dei primi, seppur non primissimi, a indossare i panni del “lungo atipico”, formuletta magica che è oggi ormai in disuso, visto che sono pochi i centri puri rimasti a calcare i campi della NBA. 

Per questo, per le sue clamorose partite, per la sua difesa e per il suo magistrale tiro in allontanamento con questa gambetta che lo aiutava a creare spazio tra sé e il proprio difensore, vera e propria rivoluzione copernicana, fu insignito del titolo di MVP in quel 2007, primo europeo di sempre e preludio all’anello arrivato quattro anni dopo.

L’era Giannis 

Seguì una nuova dinastia a stelle e strisce, grazie alla nidiata che ci ha regalato celestiali atleti del calibro di Lebron James, Stephen Curry, Kevin Durant, Russell Westbrook e  James Harden. 

Ma da tre stagioni a questa parte, il trend sembra essere cambiato. 

Nel 2019 e nel 2020, grazie a due stagioni clamorose di Giannis Antetokounmpo, il Maurice Podoloff Trophy è tornato nelle mani di un giocatore europeo. 

Prototipo del giocatore del futuro, il Dio Greco Giannis, ha sconquassato ancora una volta il mondo NBA, apportando alcuni ingredienti che, con ogni probabilità, formeranno le portate principali della pallacanestro americana dei prossimi anni. 

Braccia infinite, fisico scultoreo, velocità di esecuzione e strapotere tecnico, le armi che lo hanno portato al doppio MVP, premio discusso ma non troppo. 

Il Jolly che ha fatto discutere

Al termine della stagione regolare che ha originato le folli serie playoff che stiamo seguendo proprio in questi giorni, è stato invece eletto MVP 2020/2021, il serbo Nikola Jokic. 

Terzo europeo ad avere vinto il titolo, Jokic non ha messo esattamente tutti d’accordo, tanto che più di un addetto ai lavori ha criticato la scelta.

Alcuni analisti, come Nick Wright di Fox Sport, hanno definito la scelta di Jokic come “il peggior MVP degli ultimi decenni”. 

Jamal Murray, subito dopo la sparata di Wright, lo ha apostrofato in un tweet con un perentorio “Nick Wrong”, ma occorre dare un occhio alle cifre per capire cosa ha fatto Jokic quest’anno. 

“The Joker” ha giocato qualcosa come 72 partite, con una media di 34,6 minuti per 26,4 punti, 11 rimbalzi e oltre 8 assist. 

Se non bastasse, ha tirato dal campo con una percentuale del 56,6%, 39% da 3 e 87% ai liberi. 

Inoltre si è messo sulle spalle la parte finale di stagione dopo l’infortunio dello stesso Jamal Murray e ha portato i suoi Nuggets a chiudere al terzo posto in regular season, per poi farsi “sweepare” 4-0 dai Suns al secondo turno dei playoff. 

È onestamente difficile trovare un altro giocatore nella lega che abbia avuto numeri di questo tipo, ma è ancora più difficile, leggasi impossibile, trovare un altro uomo franchigia che lo ha fatto con la sua costanza, alla luce degli infortuni che hanno toccato più o meno tutti i candidati in questa disgraziata stagione, da Curry a Durant, da Harden a Embiid, da Chris Paul a Donovan Mitchell. 

MVP: chi poteva esserlo e non lo è stato

È dura andare a scovare i giocatori europei che potevano essere insigniti del titolo di MVP. 

Partendo dal “bottom range” si potrebbe essere Arvydas Sabonis, fantastico centro di fine millennio che giocò a Portland per sette stagioni, fermato da una incredibile serie di infortuni che ne limitarono impiego e performance.

Non si può non menzionare uno come Tony Kukoc, fortissima ala dei Chicago Bulls, certamente oscurata da tutta la schiera di campioni che ha giocato con lui negli anni d’oro di Michael Jordan e Scottie Pippen. 

È certamente vero che sia Sabonis che Kukoc non hanno comunque meritato il premio di NBA, ma meno infortuni per il primo e qualche campione in meno in squadra per il secondo, gli avrebbero probabilmente offerto qualche opportunità in più.

A Kukoc e Sabonis andrebbero aggiunti giocatori del calibro di Vlade Divac e Tony Parker, splendidi protagonisti di cavalcate trionfali di Lakers e Spurs, mentre qualche gradino sotto citiamo Peja Stojakovic e Pau Gasol, ma chi lo avrebbe meritato e, con ogni probabilità vinto, è certamente “il diavolo di Sebenico”. 

Drazen Petrovic, autentico diamante rosa del basket mondiale, di cui chi ci legge dovrebbe conoscere la triste storia e la ancor più triste fine, non avrebbe avuto rivali e con ogni probabilità avrebbe anticipato Nowitzki di un paio di decenni. 

Stiamo parlando di un periodo in cui i giocatori europei che decidevano di provare l’avventura in NBA, erano rarissimi e dovevano passare tra i denti di un pettine che definire fitti è un eufemismo. 

Le due stagioni con i New Jersey Nets, la seconda migliore della prima, con una media di punti a partita che salì da 20,6 a 24,2, lo portarono alla decisione di proporsi per una squadra da titolo, ma la disgraziata morte che lo colse a Denkendorf, non gli permise di provare la scalata all’anello. 

E ad un titolo MVP che lo stava solo aspettando.