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A metà tra un miracolo, la storia di Cenerentola e il classico sogno americano, dobbiamo raccontarvi la meravigliosa storia della George Mason University, una squadra universitaria che con un quintetto senza peso, senza solisti da urlo e soprattutto senza speranze, disputò una stagione fantastica poco meno di una ventina di anni fa, quando, guardando il calendario, leggevi 2006.

L’Università di George Mason

Se siete appassionati di basket americano, ma non siete dei veri e propri nerd dell’attrezzo, saprete benissimo che, a parte la NBA, che è la Lega Professionistica USA, la base del movimento cestistico nazionale è rappresentata da ciò che viene fuori dall’universo giovanile, segnatamente da quello universitario, che nel Vecchio Continente siamo abituati ad identificare con la NCAA, la National Collegiate Athletic Association, organismo massimo che controlla e governa la pallacanestro giovanile al suo più alto livello.

La George Mason University si ritrova immersa in un vastissimo territorio con viste a perdifiato, facente capo alle colline del Nord della Virginia, precisamente a Fairfax, che altro non è che una cittadina a poco meno di un’ora di macchina da Washington.

La caratteristica principale di tale comprensorio statale, è che lo sbocco verso il mercato del lavoro, è limitato a tutto ciò che circonda la ricerca universitaria, senza badare molto alle Borse di Studio da offrire a ragazzi che vorrebbero sfondare nel mondo dello sport professionistico.

In base a questo concetto, la squadra della George Mason Patriots, così sono chiamati da sempre i giallo verdi, non ha una grandissima tradizione nella storia del basket universitario, nonostante un bacino di oltre 30.000 studenti che la posizionano al primo posto tra le scuole dello Stato della Virginia come numero di iscritti.

Insomma, se sei un ragazzo appena uscito dalla High School e vai alla GM, lo stai facendo perché devi mettere il sedere sulla sedia e portare avanti una carriera professionale che esula dalla possibilità di diventare un campione.

Il basket alla GM

La stagione della quale vogliamo parlarvi, è quella per la quale i Patriots si stanno preparando nel 2005, stagione allora governata dalla CAA, la Colonial Athletic Association, durante la quale a incrociare colpi sotto canestro, con la GM, ci saranno Università poco nobili e ancor meno conosciute, tanto che nessuna televisione copre gli incontri dei Patriots.

Tutte le stagioni della squadra hanno quasi sempre la caratteristica di ruotare attorno ad alcuni ragazzi dal talento non proprio esaltante e di un quintetto atto a giocarsela con la maggior parte delle compagini avversarie, ma senza mai avere la possibilità di essere allo stesso livello di quelle più forti.

In quell’anno sono tre i giocatori più rappresentativi: Lamar Butler e Tony Skinn, i cosiddetti piccoli e Jay Lewis, un centro che raggiunge a malapena i 2 metri di altezza. Ecco, appunto, i 2 metri per un centro dovrebbero farvi già capire di cosa stiamo parlando.

Il resto del “roster“, è formato da altri due titolari che rispondono al nome di Folarin Campbell e Will Thomas; per il resto abbiamo a che fare con ragazzini chiamati in causa per completare il numero legale per giocare le partite, e che entrano in campo solo quando il risultato è acquisito, a favore, o contro.

A capo di questa squadra c’è il mitologico Jim Larranaga, di origini cubane, alla guida del comparto cestistico della GM ormai, all’epoca, da una decina di anni, pronto a scommettere sui suoi ragazzi nonostante lo scarso capitale umano a disposizione, tanto che gli analisti dell’epoca danno i Patriots come quarta o quinta forza del campionato CAA.

La stagione

Il campionato parte maluccio, con due sconfitte consecutive all’esordio, ma la stagione prosegue sulla falsariga delle precedenti, con la netta impressione che gli osservatori avevano ragione.

Ma ad un certo punto qualcosa cambia.

Il sofisticato regolamento universitario prevede che a giocare il torneo NCAA, saranno le squadre vincitrici della propria Conference, terreno non esattamente battuto con frequenza dai giallo verdi, che vi hanno partecipato in sole tre altre occasioni, nel 1989, nel 1999 e nel 2001, senza mai passare al turno successivo.

Da gennaio la squadra cambia sorprendentemente atteggiamento, cominciando ad asfaltare tutte le avversarie e mettendo a referto un record di 13 vinte e una sola persa, nonostante una rotazione talmente corta, da essere ridotta a soli sette elementi, i 5 del quintetto sopra menzionati e Gabe Norwood e Sammy Hernandez.

Un paio di sconfitte nell’ultima parte della stagione pregiudicano il passaggio diretto, ma la speranza di partecipare alla fase finale della NCAA rimane comunque accesa in virtù della speranza di ricevere un invito da parte del massimo comitato universitario che, puntualmente, arriva.

Impresa sfiorata

Il seed assegnato alla squadra porta il numero 11, che equivale a sfidare una certa Michigan State, la numero 6 del lotto, e di essa sì, certamente, ne avrete sentito parlare, in quella stagione non proprio imbattibile, ma che comunque aveva partecipato alle Final Four dell’anno precedente.

Gli Spartans affrontano probabilmente il match senza la grinta che dovrebbe richiedere un impegno di questo tipo e i ragazzi della Virginia vincono, peraltro abbastanza facilmente, di 10 punti, 75-65. Questo successo, il primo in un torneo NCAA, comincia a porre i riflettori sulla squadra di Larranaga, ma il match successivo si giocherà solo dopo un paio di giorni.

L’avversario successivo porta un nome ancor più altisonante, rispetto a quello di Michigan, ed è North Carolina, pronta a fare un sol boccone della GMU, anche in virtù di un atteggiamento iniziale, che non può essere lo stesso degli Spartans.

La pratica, infatti, sembra prendere una direzione netta, quella della NCU, alla luce di un perentorio 16-2 in apertura che sembra aver messo le cose in chiaro fin da subito. Ma, anche in questo caso, North Carolina commette lo stesso errore di Michigan e leva troppo presto le mani dal volante, facendosi prima rimontare dai meno quotati avversari, per poi perdere il senno e sbagliare tutto ciò che si può sbagliare nei minuti conclusivi e quindi perdere 65-60, senza sbagliare mai dalla lunetta.

La favola di Cinderella

A questo punto il danno è fatto: è “Cinderella Time” e la favola di Cenerentola, che doveva già essere in vacanza da tempo, prende prepotentemente vita, visto che la GM è tra le Sweet 16, ma adesso c’è una settimana per preparare la partita e l’isteria collettiva si impossessa di tutti gli Stati Uniti, pronti a tifare per Davide che sfida tutti i Golia possibili e immaginabili.

Il torneo che porta alle final four si gioca a Washington e potete solo immaginare quanto il palazzetto che ospita quel torneo, sia colorato di Giallo Verde. I Patriots se la vedono con Wichita State, già sconfitta durante la stagione e, incredibilmente, alla portata del Larragana Team, tanto che, dopo un primo tempo sublime, la GM vince senza patemi per 63-55.

Ora ci sarebbe da sconfiggere il mostro dei videogiochi, prima di vivere il sogno delle F4 di indianapolis, Connecticut, una delle squadre più accreditate alla vittoria finale, ma, con l’ennesima prestazione tutto cuore, GM compie l’ennesimo miracolo e centra le Final Four dopo un tempo supplementare. Una prestazione storica.

È Rudy Gay, leader incontrastato degli avversari, a riconoscere la vittoria dei Patriots, parlando di successo meritato.

Alle Final Four, guidata da mostri sacri dell’epoca come Joakim Noah, Al Horford e Corey Brewer, che dimostrarono poi il loro valore anche in NBA, Florida mise fine al sogno di Cenerentola, battendo 73-58 George Mason.

Una delle più belle favole della storia dello sport americano.