Vai al contenuto

Tra i più importanti giocatori che hanno calcato i parquet italiani, un posto speciale ce l’ha Carlton Ettore Francesco Myers, classe 1971. Nato a Londra da padre caraibico e madre riminese, è stato colonna della Nazionale italiana degli anni ’90, con la quale ha vinto un oro e un argento europei e un oro ai Giochi del Mediterraneo. Eclettico in campo quanto ruvido fuori, la sua immagine post-carriera è diventata più “dura” di quanto forse si potesse immaginare. Ora, vi raccontiamo perché.

La storia

Da giovane Carlton ha “rischiato” di diventare più un musicista che un cestista. Il padre, sassofonista, avvicinò il figlio alla carriera musicale, iniziandolo al flauto traverso. Al contempo però il piccolo Carlton si dimostrò portato per lo sport: gli piaceve il basket, ma in adolescenza, praticò calcio, karate e cricket. A nove anni si spostò con la madre a Rimini, per via della separazione dei suoi, dove entrò nelle giovanili della squadra riminese con Claudio Papini, suo mentore, che lo prese sotto la sua ala aiutandolo nella sua trasformazione a giocare di pallacanestro. Giocatore vero!

Il debutto tra i grandi del basket arrivò a 17 anni, quando mise per la prima volta i piedi in A2 con la maglia del Marr Rimini, ma la vera esplosione due anni più tardi, in B1 con la medesima squadra, trascinata da lui alla promozione in A2, con vittoria personale del titolo italiano juniores battendo in finale la Stefanel Trieste di un certo Gregor Fucka, poi suo compagno di Nazionale. In quell’occasione, grazie all’apporto dell’oriundo con l’accento romagnolo, il Basket Rimini divenne la prima e unica società italiana a vincere tutti gli scudetti giovanili di categoria, risultato reso ancor più eccezionale perché raggiunto con formazioni interamente composte da giovani riminesi.

Da lì, considerato stella emergente del basket italiano, arrivò la convocazione in Nazionale, dopo aver condotto la Marr alla promozione in massima serie con una media di 26.8 punti a partita e una leadership da veterano… pur avendo solo 21 anni.

Un viaggio per tutta Italia e non solo

Partì allora il viaggio di Carlton Myers verso l’Olimpo della pallacanestro europea, e non solo. Due anni a Pesaro, un altro di ritorno a Rimini, sei alla Fortitudo Bologna con la conquista di uno scudetto, una Supercoppa italiana e una Coppa Italia, tre alla Virtus Roma, uno alla Mens Sana Siena con vittoria della seconda personale Supercoppa italiana, una parentesi a Valladolid prima del ritorno a Pesaro in A2 con relative promozioni in fila, prima in A2 e poi in A1 nelle stagioni 2006 e 2007.

Infine l’ultimo capitolo riminese (09-10) e l’atto conclusivo di San Patrignano, dove giocò una partita ufficiale al fianco del figlio 16enne Joel in occasione del 40° compleanno, momento nel quale annunciò il ritiro ufficiale dall’attività professionistica. Dopo di che si annota, nella stagione 12-13, un’annata nel campionato amatoriale UISP della provincia di Rimini, vestendo la canotta dell’Eukanuba Dream Team, chiudendo in sordina.

Tralasciata, ma non per importanza, la possibile parentesi NBA, che nella realtà non ci fu mai. All’inizio degli anni ’90 infatti Myers venne invitato dai New York Knicks per un provino, ma lui rispose di no, continuando la carriera in Italia e vincendo tutti i titoli sopra descritti dall’arrivo alla Fortitudo in poi.

Simbolo di integrazione e inclusione

Ciò che però maggiormente ha caratterizzato la vita di Carlton Myers è ciò che gli è successo a latere del campo da basket, prima durante e dopo la sfolgorante carriera sportiva. L’Italia degli anni ’90, non era ancora abituata al fatto che un eroe nazionale potesse avere tratti diversi da quelli cui era abituata. Carlton fece da apripista in tal senso, diventando un simbolo di inclusione e integrazione, scelto alle Olimpiadi del 2000 a Sidney dall’allora Presidente del CONI, Gianni Petrucci (oggi Presidente FIP), come portabandiera. “L’ho vissuto come un grande privilegio”, ha detto recentemente Myers sulla questione. “Sapevo che si trattava di una questione non solo sportiva, visto che c’erano altri atleti meritevoli come o più di me. Si voleva dare un segnale forte”. E così fu!

Da lì qualche tentativo di entrare nel mondo della tv, mai parso a lui troppo gradito. Due stagioni su Italia 1 conducendo, al fianco di Fiammetta Cicogna, “Wild – Oltrenatura” e qualche telecronaca da spalla tecnica negli anni successivi, senza particolari apici e con un graduale allontanamento dai riflettori, pur con la grande considerazione che un campione della sua caratura ha sempre avuto.

L’incontro con Dio

Ciò che però ha caratterizzato il recente passato di Carlton Myers, almeno per ciò che ne sappiamo tutti noi, è il rapporto personale con Dio. Lui stesso ha dichiarato, in un’intervista a GQ, che le sconfitte lo hanno avvicinato al Creatore, azione che lui definisce come la vittoria più importante. Toccante il suo racconto della finale con Treviso nel 2000, quando era il leader della Fortitudo Bologna devastante di quella stagione, prima in regular season con appena tre sconfitte su trenta gare giocate. “Ho vissuto trentasei ore di terrore – così ha descritto le sensazioni al termine di gara 1 di Finale, persa – stavo per soccombere all’idea di poter perdere ancora, angosciato a tal punto da cercare un espediente per non giocare, per farmi male e non essere arruolabile. Mi sono rivolto a Dio, dicendogli che se la sua volontà fosse stata che io perdessi di nuovo, che fosse così, ma avrei potuto non uscirne. Il pensiero di perdere ancora bruciava più della sconfitta stessa”. Un messaggio questo che vale come una seduta di terapia, che racconta di un uomo apparso per anni invincibile, nella realtà normale, con le sue debolezze e angosce.

Una situazione che lo ha reso duro nei confronti degli altri e forse anche della pallacanestro. Un atteggiamento di chiusura e autodifesa, che ai tempi deve aver reso la vita complicata ai compagni di squadra, come complessa è stata la sua vita da piccolo, sulla quale ha dovuto imporsi, nel momento della separazione dei genitori. “La mia vita mi ha reso duro e duro con tutti, quasi in guerra”, ha detto sempre nell’intervista rilasciata a GQ lo scorso febbraio, aggiungendo anche: “Per il colore della pelle non ho subito episodi particolarmente gravi, ma sento di aver dovuto rendere il doppio di altri giocatori per ottenere la stessa visibilità”, cosa che probabilmente l’ha portato oggi a staccarsi dalle luci della ribalta, restando “solo” quel Myers icona di un basket italiano vincente in Europa, come pochi ce ne sono stati nella storia.