L’Italia è quel paese che non riesce quasi mai a trovare un equilibrio. Non sono passate nemmeno 24 ore dal sigillo all’anno più incredibile nella storia del tennis italiano, in cui abbiamo conquistato la vetta del ranking ATP e due tornei dello Slam con Jannik Sinner, oltre alle due principali competizioni a squadre maschili e femminili, e sono comparse le solite “vocine”.
La Coppa Davis nel solco della guerra “ideologica” tra passato e presente
Per carità, le voci critiche ci stanno tutte, non danno meno fastidio delle lodi sperticate e dell’esaltazione spropositata, anche da parte di chi il tennis lo ignorava o snobbava fino a poco più di un anno fa. Tuttavia, vivendo in un’epoca in cui imperversa la retrotopia (quel fenomeno per cui qualsiasi cosa venga dal passato è automaticamente migliore rispetto a tutte quelle del presente), è il caso di mostrare delle evidenze nel tentativo (seppur vano) di smontare alcuni stereotipi.
1 – Dite quello che volete, ma il Challenge Round faceva schifo
Forse non tutti sanno che la formula della Coppa Davis, fino al 1971 e dunque per le prime 61 edizioni, prevedeva il cosiddetto Challenge Round. Oggi questa modalità di competizione è rimasta praticamente solo nell’America’s Cup di Vela e consiste nel fatto che il team campione in carica ottiene il privilegio di essere qualificato direttamente alla finale dell’edizione successiva, dove sfida la squadra qualificata tra tutte le altre.
Ogni formula ha pregi e difetti, ma certo il Challenge Round non brilla per equilibrio. La qualificazione direttamente in finale, il fatto di poter rivincere un trofeo giocando una sola sfida, sempre in casa e decidendo su quale superficie, sono una somma di vantaggi davvero eccessivi.
L’attuale format non sarà perfetto, ma non credo che ci sia al mondo qualcuno che possa rimpiangere i tempi del Challenge Round.
2 – I favolosi tempi dei successi per pochi intimi
Un’altra curiosità che forse pochi conoscono è che la Coppa Davis si chiama così soltanto dal 1946. Prima di allora il nome del torneo era International Lawn Tennis Challenge, ma la cosa più interessante è un’altra. La prima edizione, avvenuta nel 1900, nacque dalla volontà di quattro studenti di Harvard di sfidare i colleghi inglesi in un torneo di tennis. La prima edizione, vinta appunto dagli USA, aveva solo due team partecipanti. Solo nel 1957 la partecipazione si è allargata a più di 30 nazioni.
Nel 2024, tra tutti i vari livelli, hanno preso parte alla Coppa Davis qualcosa come 157 paesi, record assoluto per una competizione sportiva annuale.
3 – Il vecchio format aveva anche dei difetti
Uno degli argomenti forti dei nostalgici della vecchia Coppa Davis era il fatto di essere più “probante”. Sicuramente era molto impegnativa, visto che ogni scontro richiedeva quattro singolari e un doppio, tutti al meglio dei 5 set e distribuiti nell’arco di tre giorni. A parte l’incompatibilità di quella formula con l’attuale fittissimo calendario del tennis, cosa che peraltro ha generato non di rado il disimpegno dei giocatori più forti, quella formula comportava conseguenze del tutto in antitesi con un prodotto che vuole arrivare a un pubblico ampio. Situazioni in cui la regolarità della competizione sportiva veniva messa a forte repentaglio (si pensi alla finale di Praga del 1980, tra Cecoslovacchia e Italia), oppure altre in cui si affrontavano avversari dall’altra parte del mondo, con conseguente necessità di levatacce per seguire gli incontri.
4 – A vincere col numero 1 ATP sono buoni tutti, ma anche no
In diversi, tra cui Nicola Pietrangeli nell’immancabile intervista in cui ormai gli si cerca di estorcere qualche stilettata contro Sinner e compagni, hanno sottolineato quanto sia stato facile vincere, potendo contare sul numero 1 al mondo e soprattutto su un giocatore in forma strabiliante come Jannik Sinner. Oltretutto, sfidando in finale una nazionale che schierava il n.40 e il n.80 del ranking ATP. Ma andiamo per ordine.
Si accennava prima al fatto che la formula della Coppa Davis è cambiata molto, negli anni, anche per ovviare alle crescenti defezioni dei giocatori più forti. Ieri l’Italia ha vinto la sua seconda Davis consecutiva, la prima potendo contare sul numero 1 ATP. Ma avere il primo giocatore nel ranking è garanzia di vittoria? Non proprio, guardando ai dati storici.
Da quando esiste il nuovo format (2019), solo una volta ha vinto la nazionale che schierava il numero 1 ATP: la Spagna, proprio nell’anno di esordio della nuova formula.
Ma anche in precedenza, non è che avere il n.1 del ranking tra le proprie file fosse garanzia di successo. Considerando ovviamente soltanto l’era Open (prima del 1973 non esisteva ranking individuale), solo in questi casi la Coppa Davis è stata vinta dalla squadra che schierava il primo classificato nel ranking del tempo:
- 1978 USA (Jimmy Connors)
- 1981 USA (John McEnroe)
- 1982 USA (John McEnroe)
- 1992 USA (Jim Courier)
- 1995 USA (Pete Sampras)
- 2008 Spagna (Rafael Nadal)
- 2014 Svizzera (Roger Federer)
- 2019 Spagna (Rafael Nadal) *
- 2024 Italia (Jannik Sinner) *
* nuovo format
In percentuale, pertanto, solo nel 17,3% dei casi (9 su 52 edizioni) ha vinto la nazionale che poteva schierare il numero 1 del ranking ATP.
5 – Sì, ma gli avversari erano scarsi (cit.)
Il fatto che né Tallon Griekspoor né Botic Van de Zandschulp costituissero uno spauracchio è talmente scontato che non sarebbe neanche da ribadire. Fatta salva una minima percentuale di incognita presente in ogni competizione, certo l’Olanda non si presentava come l’avversario più insidioso di sempre. Eppure, erano stati loro a eliminare la Spagna di Alcaraz e poi la Germania, che aveva a sua volta estromesso gli USA di Fritz, Paul e Shelton. In entrambi i casi ci sono stati probabili grossi errori da parte delle nazionali sconfitte, come la scelta di David Ferrer di schierare Nadal e quella di Bob Bryan di improvvisare un doppio Shelton-Paul.
Ovviamente gli avversari in finale non si scelgono, e non ricordo milanisti considerare la Coppa dei Campioni 1988/89 come un trofeo inferiore per il fatto di averlo conquistato battendo “solo” la Steaua Bucarest e non corazzate come Real Madrid, Barcellona o Bayern Monaco. Inoltre, per rimanere in ambito tennis, quella conquistata nel 1900 contro un’unica avversaria presente è una delle 32 edizioni vinte dagli Stati Uniti. E vale quanto tutte le altre.
Detto questo, non è nemmeno la prima volta che ciò accade. Anzi, anche per rispondere a Nicola Pietrangeli che ha detto “non è che abbiano battuto chissà quale avversario”, è il caso di rammentare cosa successe 48 anni fa.
Nella finale del 1976, divenuta per definizione “epica” perché vincemmo la nostra prima Coppa Davis e per la delicata situazione politica in cui ebbe luogo, il Cile si era qualificato in circostanze perlomeno singolari. In semifinale, era passato per rinuncia dell’Unione Sovietica, che non si era presentata per protesta contro il regime dittatoriale di Pinochet. Inoltre, è il caso di ricordare che la squadra cilena aveva il suo elemento migliore in Jaime Fillol, al tempo numero 24 mondiale, mentre il secondo singolarista Patricio Cornejo era oltre la centesima posizione. Eppure, non ricordo nessuno aver detto a Pietrangeli che la sua Italia sconfisse avversari scarsi in finale.
E che dire della Svezia nel 1987? Gli scandinavi allora erano una potenza, infatti vinsero l’edizione nonostante il forfait di Stefan Edberg per infortunio. Mats Wilander e Anders Jarryd se la videro con l’India, che si presentò col numero 58 ATP Ramesh Krishnan e con i fratelli Amritraj: Vijay che era numero 221 e il vecchio Anand, che non aveva nemmeno più classifica.
6 – Quando i brutti anatroccoli eravamo noi
Oggi ci troviamo nell’inedita situazione di dover imparare a gestire una posizione da netti favoriti, ma nella storia siamo stati spesso e volentieri noi, a interpretare il ruolo di sorprese. L’Italia arrivò in finale nel 1998 con Andrea Gaudenzi n.44 e Davide Sanguinetti n.48, per dirne una. E non sono nemmeno mancate le grosse sorprese nell’albo d’oro. Si pensi alla Francia, vincitrice nel 1996 con Cedric Pioline (n.21) e Arnaud Boetsch (n.33), in finale sulla Svezia di Enqvist e del vecchio Edberg. E gli USA favoritissimi? Erano usciti nei quarti per mano della Repubblica Ceca, una débâcle in cui non avevano giocato né Pete Sampras, né Andre Agassi né Michael Chang, ma Todd Martin e Malivai Washington. Ora potete continuare a dire che si stava meglio quando si stava peggio eccetera eccetera, ma qualcuno doveva ricordarvi come stanno le cose.