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Era giugno, anno 1995. E il drop, il calcio al volo di un pallone che cade dall’alto, diventava una delle metafore viventi più incredibili della storia dell’umanità. La squadra sudafricana di rugby, durante la Coppa del Mondo, sta lottando con tutte le sue forze contro gli invincibili guerrieri neozelandesi. Carlin, londinese, collaboratore dell’Observer, del New York Times, del Pais, cede la frase di apertura dell’articolo della vita a Joel Stransky, il cui calcio al pallone – finito tra i pali – ha contribuito non solo a quell’insana vittoria, ma anche alla costruzione di un paese che rinacque in quello stesso giorno. Il Sudafrica. “Ho ricevuto il pallone in modo preciso, ho eseguito un chut perfetto. Ha mantenuto la traiettoria. Ha girato come doveva, senza prendere deviazioni. E non l’ho neanche visto, non avevo bisogno di sapere l’esito. L’ho capito quando l’ho calciato, che era un colpo giusto, che era troppo bello per essere sbagliato. Volevo impazzire”.

Con lui, tutta una nazione. Al capitano del XV sudafricano, quel monumentale essere umano chiamato Francois Pineaar, un commentatore tv chiese com’era stato avere l’appoggio di 62mila compatrioti che avevano riempito lo stadio Ellis Park. Lui rispose: “Non ho sentito l’urlo dei 62mila, ma quello dei 43 milioni di sudafricani”. Mandela, vestito con i colori verde e oro che fino ad allora nessun uomo di colore aveva mai indossato, vuoi per non essere simbolo dei bianchi, vuoi per non rappresentare i temuti e gli odiati afrikaners, gli portò la gran coppa, si complimentò così: “Grazie per tutto quello che hai fatto per il Sudafrica, François”. La risposta del capitano: “No, signor Presidente, grazie a lei per quello che ha fatto per il nostro paese”. Lo stadio rimbombò, intonando in coro il nome di Mandela.

Ecco, poco prima si era arrestata la dura lotta contro l’odio, e per la riconciliazione anche e soprattutto il rugby fu arma e strumento eccezionale. Quella lotta è narrata in maniera epica, a volte anche meravigliosamente intima, nel film Invictus. In Sudafrica fu proiettato nei cinema il 13 febbraio, giusto il giorno in cui venne confermato il cambio al vertice in panchina. Erano giorni in cui si parlava di presente e passato, e in cui si guardava a quel momento come il punto di non ritorno dei sogni. Realizzato quello, il Sudafrica non si è mai più fermato.

Uno sport, una nazione

Ma di cosa si parla, cosa si racconta? C’è la vera storia e il vero esempio di come Nelson Mandela si alleò con il capitano della squadra di rugby del Sudafrica, appunto Pienaar, affinché lo aiutasse a unificare il suo paese, terribilmente diviso dalla storia dell’apartheid, vissuta a pieno regime fino a quel momento. Il neo presidente Mandela sapeva che, dopo l’apartheid, la sua nazione era ancora divisa da cause razziali ed economiche. Con in tasca un po’ di fiducia, Madiba si rende conto che c’è un modo per riconciliare il suo popolo: può farlo attraverso il linguaggio universale dello sport. Mandela prende in carico il gruppo rugbystico sudafricano, una squadra debole e all’apparenza con poche speranze. In maniera assolutamente insperata arriveranno alla finale di Coppa del Mondo di rugby, il tutto nel 1995.

C’è una retro-storia. Nelson Mandela, fino ad allora, aveva bussato alle porte di ogni cittadino sudafricano per insegnare il potere del perdono e della riconciliazione; con ogni sforzo, il presidente cercava qualcosa di forte al fine di migliorare un intero paese. Mandela aveva intenzione di far capire a tutti che l’uguaglianza restava il miglior cammino per il Sudafrica, solo così avrebbe preso una piega definitivamente diversa. L’oppressione dei bianchi, sui più ‘deboli’ neri, non era cambiata neanche dopo una guerra civile durissima: Madiba era certo che l’avrebbe fatto quando tutti avrebbero capito che la differenza tra le persone è dentro il singolo, con i propri criteri, azioni, pensieri. Solo così era possibile rispettarsi, accettarsi gli uni con gli altri. Il cammino per transitare dall’odio alla comprensione doveva essere perciò il perdono.

Mandela mostrò la sua dura esperienza in carcere come un ostacolo, come qualcosa che tutti abbiamo da affrontare giornalmente. Difficoltà che possono essere anche necessarie per raggiungere gli obiettivi prefissati, specialmente se parliamo di un obiettivo valido per tutto un paese. Dall’umiltà e dal suo forte affetto per i valori etici, Mandela tirò fuori una sentenza per la vita: “Chiunque si comporti basandosi sulla morale, l’integrità e la coerenza, non ha da temere la forza dell’inumanità e della crudeltà”.

Tutto in una partita

Mandela visitò Barcellona nel 1992 per assistere ai Giochi Olimpici, fu lì che si rese conto dell’importanza dello sport nella società, e di come attraverso questa potesse penetrare in tutta, la società. Indipendentemente dal suo estratto sociale. L’esempio catalano gli servì per realizzarlo in proporzione sudafricana: il mondiale di rugby, lo sport più seguito, gli parve semplicemente una buona idea.

Gli Springboks, così come chiamavano la selezione nazionale, erano un simbolo del potere bianco. Tutti i giocatori, tranne uno, erano bianchi; i loro tifosi erano bianchi; tutti erano già uniti nelle critiche: e il bersaglio era Mandela. Sì, anche i neri. Sì, perché la situazione era surreale: gli uomini di colore tifavano per gli avversari dei propri ragazzi, i bianchi davano contro Mandela. Per chi si trovava a doverla raccontare, la strada dei sudafricani era una salita tra le più ripide della storia. Solo lo sport l’avrebbe aiutato: Mandela non si sbagliò. Un anno prima dell’inizio del Mondiale, il Presidente attivò la macchina dell’unione: una corsa contro il tempo affinché, alla fine di quest’appuntamento, tutti i sudafricani tifassero gli Springboks.

Da lì, la riunione di Mandela con Pienaar, il racconto dell’idea e un progetto alla base che risultò fondamentale: lezioni di rugby nelle regioni più povere, specialmente ai piccoli di colore. ‘Invictus’ era il titolo della poesia che il Presidente diede al capitano della nazionale, versi pregni di significato che Mandela leggeva durante i suoi anni a Robben Island, nel periodo di prigionia. Pienaar raccolse con ammirazione la petizione di Mandela: convinse a uno a uno i suoi compagni, ricevendo il sorriso meravigliato di Chester Williams, l’unico di colore di quella storica squadra. Dritti per la loro strada. Nonostante le critiche, pure degli stessi elettori di Madiba. La favola si fece tenacemente realtà.

15-12 contro la Nuova Zelanda. Dopo un extra time da infarto, il drop di Stransky diede la vittoria. Le immagini che si videro quel giorno, in Sudafrica, sancirono la vittoria di Mandela. Un fiume di persone che mai aveva celebrato una vittoria in un campo da rugby, si riunì per le strade gridando di allegria. Tifosi bianchi, i veri e grandi appassionati, inondarono le strade con la bandiera costituzionale sudafricana. Verde e oro, come vestiva Mandela, mentre portava la coppa ai campioni del mondo. Mentre cambiava la storia.