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Gli anni ruggenti hanno un unico difetto: sono intrisi di nostalgia. Il motivo è chiaro, evidente, palpabile e doloroso: ti accorgi della reale grandezza di quei periodi soltanto quando ormai hanno smesso di occupare le tue giornate. Non hai nient’altro da coltivare, se non una furiosa retromarcia nei ricordi, nelle stesse emozioni, in tutto ciò avresti fatto o detto in maniera diversa. A meno che, alla voce rimpianti, non esista neanche la possibilità che le cose avrebbero potuto prendere una piega diversa.

Ecco, la Juve, tra chi era in campo e chi guardava la partita allo stadio e in tv, ha la grossa presunzione di negare ogni alternativa. Quel 14 maggio del 2003, con il Real Madrid in trasferta a Torino per la semifinale di ritorno di Champions League, aveva solo l’ambizione di cancellare il 2-1 accumulato al Bernabeu. Erano blancos stellari, quelli. Erano bianconeri affamati, quegli altri. E con giocatori dal talento smisurato.

L’antefatto

No, non ci sarebbe stato modo più bello, riscatto più incredibile. Contro gli avversari più forti, poi, con i pronostici in tasca e davanti un destino da vincenti. Contro Ronaldo, Zidane, Figo. Contro Roberto Carlos, Hierro. Helguera. Contro Raul Gonzalez Blanco e una tradizione che non può non intimorire, pure se ti chiami Juventus.

Aveva un paio di idee, Lippi. Tra una partita e l’altra, aveva difatti capito come arginare tutto quel talento e spezzare le Merengues in due, nella speranza di renderle inefficaci. Primo punto all’ordine della rimonta: piazzare Birindelli su Figo, come all’andata; secondo punto: fiducia a Tacchinardi al centro del campo, per arginare e ripartire con velocità, predicando la semplicità di chi non si prende troppo sul serio (al contrario degli avversari). Inutile dire che furono due scelte assolutamente felici, inutile dire che la più grande fetta di fiducia era però tutta riposta in quell’attacco strepitoso: c’era il miglior Nedved della carriera, c’era un Del Piero assolutamente ritrovato, c’era un David Trezeguet che dispensava la sua teoria dei gol. C’era tutto. E c’era una squadra pronta a supportarli.

Fu con queste convinzioni, e con la certezza della necessità della partita perfetta, che la Juventus arrivava caricata da un Delle Alpi colmo di tutto. Serviva l’1-0 per passare e dovevano tutto al gol di Trezeguet, in grado di lasciare aperti i giochi per il ritorno. Il canovaccio tattico di Lippi, dal primo all’ultimo istante, diventò un copione eseguito alla perfezione, in ogni singolo scompartimento. Di corsa e di talento. Soprattutto, di cuore.

La partita perfetta

Il primo tempo è rarità. È la rosea aspettativa che sa farsi realtà – e non capita poi così spesso. È, in particolare, Zidane chiuso e recluso dagli interventi di Tacchinardi e Davids; è Figo che stavolta, pure con tutta la classe del mondo, Birindelli non lo supera né in velocità, né in dribbling. È la Juve intera che si chiude a riccio e riparte feroce. Lasciando in bambola il club più glorioso al mondo.

Al dodicesimo, ecco il primo squillo juventino: Nedved si allarga sulla fascia, crossa in mezzo e Del Piero crea per Trezeguet, a un passo da Casillas. Non può sbagliare, non sa sbagliare. Mezz’ora più tardi, il capitano non solo si fa nuovamente protagonista: diventa emblema di qualità, immagine di una Juve che sapeva andare ben oltre il solito furore agonistico. Stop di talento, finta su Salgado, rientro su Hierro, destro e sinistro e infine solo destro: chirurgico, e alle spalle di Casillas. Apoteosi, con sfondo sulle Alpi.

A metà della ripresa, il Real lancia in campo il Fenomeno. E Ronaldo, seppur non al meglio, non si lascia scappare l’occasione di colpire il rivale di sempre. Zig zag, imprendibile per tutti e soprattutto per Montero: è calcio di rigore. Sul dischetto si presenta Luis Figo: ha l’opportunità di pareggiare i conti e di regalarsi un finale di forcing fisico e mentale. E sulla tenuta psicologica, si sa, battere il Real Madrid è come scalare i monti alle spalle dello Stadio. Leggera rincorsa e destro secco; Buffon ci mette le mani e allontana, stringendo i pugni e urlando il suo dissenso per i destini già scritti e le sentenze emesse prima del tempo.

Dolce e amaro, quel finale

Con un colpo di reni, Buffon aveva respinto persino le paure e le ansie di una competizione troppo assurda, troppo testarda, troppo sentita. La Juve iniziò a giocare più leggera, consapevole di aver sconfitto pure il mostro della sfortuna che puntualmente si affacciava sui campi europei. E cinque minuti più tardi, Zambrotta ebbe ancora gambe per infilarsi, ancora lucidità per lanciare Nedved in verticale. Pavel fintò, bruciando Hierro in velocità, trovando il varco per destro fulminante dal limite dell’area. 3-0: ‘Un biglietto per Manchester, please‘.

La finale era a un passo e solo Zidane osò spaventare il popolo juventino, totalmente in festa. Il gol allo scadere fu un attimo, tutto il resto era dolcissimo. A parte un’immagine, quella di Nedved in lacrime: un calcetto a McManaman, a risultato ormai acquisito, portò l’arbitro ad ammonirlo. Pavel era diffidato e la sua assenza peserà come un macigno nella finale contro il Milan.