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Capolavoro calcistico. Gigi Delneri lo chiamò così, e un po’ gli occhi rossi dall’emozione gli tradirono la certa nostalgia. Era il 2017, il Leicester di Ranieri viaggiava a vele gonfissime, e quel Chievo almeno nella prima parte lo ricordava. Il tecnico friulano era all’Udinese, davanti a sé una nuova sfida con il suo passato. La domanda, in conferenza, sembrò inevitabile. Non foss’altro per l’abnegazione, per la voglia, per la leggerezza con cui sembravano prendere a calci la storia e a calcio la vita: tutti punti in comune con quanto stava per compiere Claudio Ranieri in Inghilterra. E tutto in quella frase, poi, incastonata nel passato ma ancora così vivida nei ricordi. Perché il ‘piccolo borgo che lotta contro le grandi’, proprio come raccontò Delneri, ‘è sempre bello’. E sempre lo sarà.

Viva le regole non scritte. Quelle che la vita ti costringe a seguire in maniera incontrovertibile. Una di queste, nel calcio, puntualmente ritorna: Davide non lo batterà così spesso quel Golia, però dietro l’angolo c’è sempre una storia da cui trarre ispirazione nei momenti più disparati e disperati. La Serie A non fa certo eccezione alla regola del pesce più grande, ma in quel 2001 seppe donare un barlume di poesia. Il 2001, quando Chievo Verona ottenne una storica promozione nel massimo campionato italiano.

La storia

Fu un miracolo. Il miracolo Chievo. Nei primi anni del 2000, una squadra bella come solo le squadre operaie sanno essere, aveva scelto di sognare e di scavalcare ogni ostacolo, senza porsi freni. Un gradino alla volta, che a rivederla oggi è una scalinata più che una scalata. Al termine del percorso, la porta del Paradiso delle grandi: la Serie A, i diritti tv, un mondo che chi è partito dalla Terza Categoria si era costruito con film e dicerie.

S’era fatto realtà, invece. E pure storia, perché i veronesi rimarranno l’unica società ad aver raggiunto la massima serie partendo dallo start più basso che esista nel calcio. La Terza Categoria, appunto. I campi di fango e i sogni di cemento. E in tasca, i soldi contati fino all’ultimo centesimo. Che non bastano mai, che son sempre lì a far di conto. Un 2-1 con la Salernitana, il terzo posto finale e il mondo che cambia: ma come ha fatto un quartiere di Verona a sradicare le gerarchie calcistiche e a imporsi con la forza nel gioco più dissacrante di tutti?

Il volto è quello mite, docile, rassicurante di Luca Campedelli. E’ l’azionista di maggioranza e guida da anni – con successo – l’azienda Paluani. Aveva preso il Chievo perché Chievo è casa sua: l’ha resa grande. Come lui, probabilmente nessuno. Anzi: solo il Commendatore Squinzi con il Sassuolo e la Mapei. Livelli altissimi e inarrivabili.

Una grande squadra

Per tanti, esser lì sarebbe già una mezza vittoria. Una medaglia al petto, pronta a essere riposta nello scrigno dei ricordi. Da lucidare. Da tenere per i posteri. E invece, il Chievo in Serie A si fa quasi maggiorenne e spazza via tutti i più facili tra i discorsi. Il primo, già nel 2001: tutta la rosa era stata costruita con un budget inferiore all’ingaggio di Alessandro Del Piero nella Juventus. L’undici gialloblù si dimostrò più forte del 10, singolo, bianconero.

E’ che Delneri, friulano e testa durissima, aveva modellato quella squadra come piaceva a lui. Compatta dietro, compatta in mezzo e quei due esterni alti che andavano, tornavano, poi andavano ancora. Erano solidi, maledettamente bravi in un canovaccio tattico che recitavano a memoria, mandando puntualmente fuori giri chi provava a penetrare nel mezzo e asfaltando costantemente le corsie esterne. E poi, che gruppo. Giocatori forti, e alla base uno zoccolo duro italiano che trainava tutto e tutti.

Perrotta e Barone diventeranno campioni del Mondo con la Nazionale del 2006; Nicola Legrottaglie vestirà le maglie di Juve e Milan. Corradi farà le fortune di una Lazio niente male, Marazzina era l’attaccante di talento e di quantità (di gol) da non sottovalutare. Due “fuoriclasse”, con le virgolette: il regista Eugenio Corini (scartato dalla Juventus) e Luciano – o Eriberto, fate voi – sulla fascia a dribblare e inventare. Pazzeschi.

La cavalcata

Debutto a Firenze, stadio Franchi. Subito tripudio: il Chievo batte la Viola per 2-0. Stesso risultato in casa con il Bologna, e lo scherzetto quasi riesce pure con la Juventus, per giunta a Torino: i bianconeri devono sudare, tanto, per scamparla sul 3-2. Il filotto è incredibile: 6 vittorie, 2 sconfitte e due pareggi. Nelle successive 10 giornate collezionano 20 punti. Altro che media salvezza: sono primi in classifica.

Anzi, il primato sfugge all’ultimo perché il Milan batte l’Inter nel derby e spezza un sogno lungo una notte. Comunque, il Chievo si giocherà fino alla fine il titolo di campione d’inverno. E per lunghi tratti lo meriterebbe, anche perché la qualità del gioco è devastante. Scambi stretti, invenzioni di Corini, esterni che vanno a mille all’ora. Son belli da vedere e sembrano inscalfibili da ogni agente esterno. Sono sfacciati. E quindi carismatici.

A un certo punto della stagione, il sogno inizia a inchiodarsi alla realtà: è tempo di un miracolo? Risponde l’inevitabile calo fisico del girone di ritorno. Non solo: Mayelè, giovane calciatore della rosa, scompare in un incidente stradale. I veneti sono scossi, ne risentono. Perdono qualche partita di troppo e scivolano al quinto posto, ad appena una lunghezza dal Milan quarto (e quindi qualificato in Champions). C’è il pass per l’Uefa, però. Roba che dagli anni Settanta non accadeva a chi si presentava ai nastri di partenza come rookie di categoria. Che miracolo, il miracolo Chievo.