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Lisbona è un luogo maledetto. Qui nasce e si sviluppa la leggenda di Béla Guttmann, con annesso malocchio – tutt’oggi misteriosamente e terribilmente venerabile. L’Estadio da Luz è il luogo stesso di questa maledizione. Non è facile dire se e fino a che punto il 24 maggio del 2014 sia volata via, come una parola lasciata al vento, la maledizione di Béla Guttmann, in un sadico passaggio di consegne al Cholo Simeone. Solo una cosa è certa, a fortiori dopo la finale di due anni dopo a San Siro, nel 2016: il Real Madrid, per l’Atletico, è una maledizione.

Non che El Cholo non sia stato in grado, negli anni, di battere – con annessi trofei nazionali e internazionali – a più riprese il Real Madrid, gli odiati galacticos. È vero, dunque, che se di maledizione deve parlarsi, lo si deve però ad una condizione stringente: limitarne l’effetto alla Champions League – già, perché oltre a due finali perse, l’Atletico (s)conta contro il Real Madrid anche l’eliminazione alla fase finale del torneo.

Per capire una maledizione, non serve altro che credervi. Come si crede in un miracolo, di cui la maledizione rappresenterebbe il diabolico contraltare, così si crede al maldito (dallo spagnolo, la cui traduzione esatta è molto meno accomodante del nostro italiano: dannato). Credenza o meno, occupiamoci di riesaminare da cima a fondo quella che è stata una delle finali più incredibili della storia del calcio, seconda forse solo a Bayern Monaco v Manchester United del 1999.

Sembra la serata dei «Colchoneros»

L’Atletico Madrid, appena una settimana prima, sollevava un titolo agognato a lungo, che solo la maestria del Cholo Simeone era riuscita a trasformare in realtà. Il pareggio del Camp Nou col colpo di testa di Godin apriva per l’Atletico una fase d’oro. Non bisognava più parlare di terza squadra di Spagna, ma di Regina spagnola a tutti gli effetti. Il tassello finale, difficile dire se ciliegina sulla torta o dessert da fine pasto, era dunque rappresentato da questa finale di Champions, contro i rivali di una vita del Real Madrid, allenati da Carlo Ancelotti. Por la decima.

Le due squadre scendono in campo con due atteggiamenti del tutto diversi. Non ci mettiamo qui a fare psicologia da bignami, perché entrambe, pur nelle diverse attitudini (del corpo, delle movenze, degli sguardi), sanno esattamente cosa serve per portare a casa il trofeo più ambito dell’intera stagione calcistica: los huevos.

La prima palla gol capita sui piedi di CR7 che, battendo una punizione dai 30 metri, calcia pure abbastanza bene, ma troppo centrale per spaventare un attento Courtois. Passa pochissimo e Tiago con una follia in mezzo al campo regala il pallone a Gareth Bale. Il gallese, veloce come il vento e leggero come una piuma, sfonda centralmente arrivando fino al dischetto dell’area di rigore, ma il suo tiro di sinistro esce clamorosamente alla destra del portiere belga, credente per un attimo.

Al 36’, la svolta. Sugli sviluppi di un calcio d’angolo battuto dalla destra, il pallone, respinto dalla difesa del Real, viene ributtato in area di rigore da Gabi; esce male e in ritardo la difesa dei bianchi, permettendo a Godin di arrivare sul pallone e a Casillas di compiere la più maldestra delle uscite. Il pastrocchio è chiaro fin dal pallone rimesso in mezzo da Gabi: Godin è bravissimo a spizzarla all’indietro senza vedere la porta, a poco serve la disperata rincorsa di Iker Casillas, che smanaccia il pallone senza salvarlo, in tempo, dall’inevitabile esito. 1-0 Atletico Madrid, ha segnato Godin.

L’errore è collettivo: da Khedira che sale lento a Casillas che esce (primo errore) in ritardo (secondo errore). Ma a Godin va dato il merito di essersi gettato sul pallone con la furia di cui solo un uruguagio come lui sa farsi interprete fedele. Rivedendo meglio il replay, si può apprezzare come, oltre all’intuito, Godin metta una buona dose di coraggio, quella che manca a Khedira il quale, infatti, anziché lamentarsi con se stesso, allarga le braccia in direzione di Casillas – e chi incolpa ha sempre una colpa troppo grande da portare.

Da Godin a Godin, dunque. Due colpi di testa, entrambi belli, entrambi difficili. L’uno decisivo per il titolo, al Nou Camp, l’altro bello ma non già definitivo.

Sergio Ramos: L’uomo della «decìma»

La ripresa inizia nello stesso modo in cui era finito il primo tempo. Cristiano Ronaldo indirizza verso la porta difesa dai pali di Courtois un tiro forte ma non sufficientemente angolato da impensierire l’enorme portiere belga. Dalla bandierina Di Maria pesca Ronaldo, ma il colpo di testa del portoghese è più sofferto che convinto. Pallone fuori e non di poco.

Il Real reagisce di rabbia al gol preso dall’Atletico, ma gli manca la qualità nel gioco al servizio del risultato. Anche l’Atletico dimostra di esserci, a folate incerte. Adrian spaventa Casillas. Si va da una parte all’altra senza troppo ordine. Ramos si trova sulla fascia sinistra a mettere un cross (splendido peraltro) in mezzo per l’accorrente Ronaldo – che arriva a prendere un pallone imprendibile ai restanti 21 in campo – la cui spizzata non raggiunge né la porta di Courtois né l’ansimante Benzema, che in spaccata sfiora soltanto il pallone.

Il Real inizia a spingere. Splendido tridente di passaggi tra Benzema, Ronaldo e Isco, ma il tiro dello spagnolo si spegne flemmatico alla destra del portiere belga, ancora poco chiamato in causa. Dalla tribuna viene inquadrato l’assente Xabi Alonso, che sfrega le mani con aria di disappunto. Avrebbe sicuramente calciato meglio. Lo stesso pensiero lo avrà avuto per Gareth Bale, che ricevuta palla al limite da CR7, spreca malamente con un tiro a metà tra l’esterno e la punta. La stessa identica scena accade qualche minuto più tardi. Bale scende sulla fascia scappando a Godin, l’unica soluzione in mezzo è Benzema, ben marcato. Alle sue spalle, tuttavia, sia Ronaldo che Di Maria aspettavano – senza marcatura – un pallone che non sarebbe più arrivato. Il gallese s’impunta e va da solo, ma il suo tiro è flaccido. Esterno della rete e delusione di tutti, tifosi, allenatori, giocatori.

Minuto 93. Modric alla battuta di un calcio d’angolo che, se non significa proprio the last chance, vuol dire perlomeno “Ave Maria”. La palla è splendida, l’incornata di Sergio Ramos è leggendaria. È uno dei momenti più incredibili nella storia di questo straordinario sport. Voler “dare” con le parole un attimo così denso di significato, sarebbe una pretesa folle. Per nostra fortuna, viene qui in aiuto dell’autore il ricordo del lettore, che senz’altro avrà bene in mente quel momento estatico.

I tifosi del Real fanno esplodere il Da Luz, quelli dell’Atletico s’inabissano. Sul cuore dei tifosi colchoneros cala una nube nera come la notte. Purtroppo per loro, la tempesta deve ancora arrivare.

E arriva nel segno dei fulmini. Bale al 5’, Marcelo al 13’, Ronaldo su rigore al 16’ del secondo tempo supplementare. Se è vero che Sergio Ramos è andaluso, e lì dove è nato la Corrida rappresenta la massima attrazione regionale – insieme al calcio –, sarà azzardato paragonare l’Atletico a un torero leale, attento, ma infine superbo, e Sergio Ramos alle corna del toro trafitto ma non ancora sconfitto. È bastato un momento, al torero, un momento di distrazione fatale, per essere incornato. Una, due, tre, quattro volte. 4-1 e Decima per il Real. Inizio della maledizione per l’Atletico di Simeone.