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Anche gli eSports soffrono di pregiudizi nei confronti delle donne. Potrebbe sembrare strano, visto che si tratta di un mondo giovane, tecnologico, in teoria abituato al concetto di “pari opportunità” e quindi, si presume, più aperto. Nelle chat o durante sessioni di streaming su Twitch si assiste invece a continue forme di maschilismo della peggior specie, che raggiungono livelli di vera e proprio violenza verbale.

Il caso più recente e più eclatante è senza dubbio quello della streamer Jessica “Jess” Bolden, un nome e una voce molto noti nel mondo di Tom Clancy’s Rainbow Six: Siege. La 25enne australiana è infatti caster del Six Invitational, il torneo principale del gioco targato Ubisoft nonché uno dei più seguiti a livello globale, ma negli ultimi tempi tutta questa visibilità si è trasformata in un incubo per lei.

La chat del suo canale Twitch, dove “Jess” streamma anche altri giochi ma in particolare Rainbow Six, è stata invasa da commenti sessisti, insulti e addirittura molestie sessuali. Un’esperienza terribile, al punto che la giovane donna ha deciso di allontanarsi dal titolo di Ubisoft perché “la tassa emotiva imposta da quelle trasmissioni stava diventando insostenibile“. (fonte gazzetta.it)

Esiste quindi un ambiente “tossico” all’interno della community di R6, ma questa non è l’unica ad ospitare persone problematiche che usano l’anonimato della chat per scaricare sugli altri le proprie frustrazioni. Casi simili, infatti, sono stati registrati all’interno delle community di Overwatch e di Fortnite. I bersagli sono stati anche gli streamer maschi, ma la cosa assume un aspetto odiosamente discriminatorio quando al microfono c’è una donna.

E vista la dimensione degli esports, il problema diventa globale. L’anno scorso, l’influencer indiana Shagufta Iqbal ha denunciato di essere stata vittima di cyber-bullismo. Xyaa, questo il suo nickname nel web, in quella occasione ha dichiarato che “a causa di queste forme di bullismo molte giocatrici preferiscono non uscire allo scoperto, una situazione che limita il numero di donne nell’ambito dei videogame. Ma le opportunità ci sono e le donne devono soltanto farsi avanti”.

Anche perché i numeri parlano a loro favore, visto che almeno un fruitore di videogiochi su 3 è donna. Servono però iniziative a sostegno, come ad esempio quella di Queer Women of Esports (QWE), organizzazione no profit dedita a rendere il gaming competitivo un luogo più inclusivo ed equo. O quella di Miss Esports, piattaforma pensata per aiutare le videogamers che vivono in Medio Oriente e nel Nord Africa.

E anche qualcosa in più. Serve un maggior controllo da parte di tutti: publisher – soprattutto quelli dei giochi più violenti, gli sparatutto, ma anche League of Legends ha avuto i suoi problemi di “tossicità” – organizzatori, società esportive, piattaforme di streaming, istituzioni pubbliche, legislatori. Non dimentichiamo che la libertà individuale si de-finisce nel rispetto per gli altri.

Il rischio è concreto, perché la violenza continua a crescere nella nostra società, soprattutto in tempi difficili come quelli segnati dalla pandemia: bisogna evitare che dilaghi anche in un settore di per sé positivo come quello dell’intrattenimento. Altrimenti potremmo trovarci di fronte a episodi peggiori di quello capitato a Jessica Bolden: come quello tragico di Ingrid “Sol” Oliveira Bueno da Silva, esporter brasiliana di Call of Duty, assassinata due settimana fa da un “compagno di giochi”.

 

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