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Vincenzo D’Amico, ex attaccante della Lazio scudettata nel 1974 e commentatore tv per la Rai, è morto oggi ad appena 68 anni. Da tempo era malato di tumore e aveva annunciato la sua malattia giusto due mesi fa, a maggio.

Il calcio italiano si stringe nel ricordo di questo giocatore talentuoso bandiera di una squadra che ha fatto la storia del nostro pallone, oltre che uomo televisivo sempre preparato e con un pizzico di ironia sempre al momento degli interventi.

Vincenzo D’Amico, chi era

Vincenzo D’Amico era per tutti “Vincenzino”, per via della sua statura non certo da corazziere. Questo non gli ha impedito di avere una carriera ad altissimo livello in Serie A, quasi esclusivamente con la maglia della “sua” Lazio, squadra per cui ha militato per 14 stagioni, in due spezzoni inframezzati da un’annata al Torino nel 1980-81. Per lui 49 gol in 336 presenze.

Un ragazzo prodigio, D’Amico, nato a Latina ma arrivato nella primavera biancoceleste nel 1970 e quasi subito gettato nella mischia in una squadra destinata a un’impetuosa e irrefrenabile ascesa verso l’élite del nostro campionato.

Nato come ala, in carriera si sarebbe destreggiato sia come fantasista che come punta, per sempre nella memoria dei tifosi laziali grazie al suo contributo non banale (2 gol di cui uno nel derby) nella leggendaria stagione 1973-74 culminata con il primo scudetto nella storia biancoceleste. Conquistato matematicamente il giorno del referendum che manteneva il divorzio in Italia, peraltro.

In quella squadra Vincenzo D’Amico era l’ala sinistra nel tridente completato a destra da Renzo Garlaschelli e al centro da Giorgio Chinaglia, “Long John”, personaggio clamoroso anche extra-calcio ma che in quegli anni era semplicemente uno degli attaccanti più forti d’Europa.

Tutti i tifosi laziali ricordano a memoria quella formazione che iniziava con Pulici e finiva, appunto, con D’Amico: in mezzo Petrelli, Martini, Wilson, Oddi, Garlaschelli, Re Cecconi, Chinaglia e Frustalupi.

D’Amico e la “Lazio delle pistole”

Quella Lazio è passata alla storia come una delle squadre più “peculiari” ad essersi laureata campione d’Italia. Come raccontato in diversi libri (segnaliamo lo splendido “Le canaglie” di Angelo Carotenuto), la rosa era letteralmente spaccata in due clan, con due spogliatoi ben separati e ciascuno con i suoi leader: in uno i capi erano Chinaglia e Wilson (il capitano), dall’altra soprattutto Martini e Re Cecconi.

Le partitelle d’allenamento infrasettimanali erano veramente delle battaglie, con l’allenatore Tommaso Maestrelli a fare da vigile per evitare che gli animi si accendessero ulteriormente. Poi, però, come per magia la domenica tutti uniti con un unico scopo, quello di vincere.

Una squadra, la Lazio “delle pistole”, celebre anche per certi atteggiamenti un po’ strafottenti fuori dal campo, tipo andare in blocco ad esercitarsi al poligono di tiro più vicino. In alcuni casi le armi venivano usate addirittura per spegnere le luci delle camere d’albergo.

In tutto questo D’Amico, che era il più giovane tra i titolari, era finito sotto l’ala protettrice di Giorgio Chinaglia, che gli faceva un po’ da fratello maggiore. Vincenzino alla Lazio è stato legato anche nelle difficili stagioni in Serie B, negli anni Ottanta, in cui sarebbe diventato capitano.

Purtroppo D’Amico è l’ultimo giocatore di quella rosa biancoceleste a morire per un tumore o in seguito a episodi strani. Ricordiamo qui Re Cecconi, ucciso nel 1977 quando ancora era in attività in circostanze poco chiare in uno scherzo in una gioielleria, o Frustalupi, vittima di un incidente stradale nel 1990.

Oppure, forse la più dolorosa di tutte queste morti, quella di Tommaso Maestrelli, più un padre che un allenatore per quel gruppo, a cui fu fatale un cancro nel 1976, subito dopo aver portato la Lazio alla salvezza.

Negli anni comunque buona parte dell’undici titolare e delle riserve è morto: da Wilson a Chinaglia, da Pulici a Polentes fino a Ferruccio Mazzola (fratello di Sandro).