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5 maggio del 1956. A Roma si osserva con attenzione il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Si riuniva per la prima volta, ed era un tempo in cui si aveva un maledetto bisogno di risposte, di certezze, di rassicurazioni. Nel mentre, una parte della storia italiana – e non esageriamo a definirla così – è quasi pronta a essere rivelata, fissa sui nastri di partenza. C’è il referendum tra Monarchia e Repubblica, sì: ma per gli amanti del profano arriva uno sfogo e una ricerca, un sogno e un’agonia. La schedina nasce e conquista subito tutti.

Massimo della Pergola, giornalista de La Gazzetta dello Sport, ha un’idea da tempo che ha lasciato in un cassetto della redazione di via Solferino, quasi a prender polvere. Vorrebbe creare un sistema legale di scommesse sul calcio, e non fermandosi certamente qui: della Pergola vuole infatti associare lo stesso sport ai soldi, ma tenendolo anche come oggetto di finanziamento dello stesso movimento. Unire il dilettevole all’utile, dare un’ulteriore spinta a un progetto. Inizialmente bocciato anche dal suo allora direttore alla Rosea, Bruno Roghi. Poi avallato, quindi apprezzato. Sebbene l’iter si rivelò lunghissimo, Massimo non si scoraggiò. Mai.

Dall’idea alla realizzazione

Della Pergola inizia a contattare il Coni: fa colloqui su colloqui, prende risatine e apprezzamenti. La prima presentazione ufficiale arriva nel 1932, quando il giornalista – su supporto di Coni e FIGC – riesce ad entrare nelle stanze del Ministero delle Finanze. Ha un’idea parallela che dalle parti del Governo ritengono interessante: Massimo vuole difatti creare una ‘fondazione’, che in realtà è organizzata a mo’ di società. Nel suo studio, alla base di tutto c’è la Sisal. E cioè: Sport Italia Società a Responsabilità Limitata. Cinque lettere che piacciono tanto: si ricordano e fanno sognare.

Parte con un budget all’apparenza esile, ma che all’epoca valeva parecchio. Più di una fantasia. 400mila lire di capitale, 12 uffici e 100 impiegati: massiccia operazione di marketing e convincimento tipicamente italiano. Del resto, con un colosso come la Gazzetta, la storia sembrava prendere una piega già imponente. E la certezza che si trattasse di qualcosa di grosso si ebbe il primo giorno in cui furono aperte le giocate: ricevitorie in tutti i bar di Italia, una lametta da barba in regalo a chi iniziava a puntare sin dal primo giorno e… lasciarsi abbindolare dallo spettacolo della fortuna.

“Tentate la fortuna al prezzo di un vermouth”, recitava lo slogan. Che giocava sui vizi e sui piaceri degli italiani, spesso portati a bruciare nell’alcool quelle trenta lire che hanno saputo cambiare la vita di tanti. Trenta lire, sì, il costo di una giocata. Come si vinceva? Bisognava indovinare l’esito di 12 partite. Gare di Serie A, di Serie B, di Serie C. E pure Coppa Italia. La prima schedina recitava così: Inter-Juve, Bari-Napoli, Bologna-Piacenza, Cesena-Modena, Trento-Verona, Seregno-Biellese. Meraviglia.

Il signor Emilio Biasiotti

Emilio Biasiotti. Vi dice niente questo nome? Fu il primo vincitore assoluto del Totocalcio: era un milanese di cuore romano, trapiantato al nord per lavoro. Il montepremi era di 496.826 lire e fu tutto suo. Con grande attenzione di media e della gente, che iniziò a eliminare ogni forma di scetticismo sul gioco. Anzi: sistemare la vita a colpi di 1-X-2 parve cosa buona, giusta. Quantomeno da provare, pur di non perdere appuntamento con il destino.

Un’altra storia pazzesca fu quella di Petro Aleotti, originario di Treviso. Costruiva bare e tutti in paese lo chiamavano il ‘becchino’: non seppe di aver vinto, non guardò il risultato delle partite, non trovava più il foglietto. Insomma, era stato baciato dalla sorte ma lui aveva gli occhi chiusi. La fortuna però lo colpì due volte: ai tempi il gioco non era coperto da privacy. Un telegramma del Ministero gli provocò quasi un coccolone: 64 milioni di lire fresche di stampa lo raggiunsero nel trevigiano.

Un gran successo sin da subito, penserete. E invece non fu proprio così: come uno scalatore professionista, il Totocalcio si è preso il suo tempo prima delle grandi volate. Cinque milioni di schedine stampate nel primo anno, non esattamente il nirvana, comunque un risultato che non scoraggiava. Anzi. Anche perché da lì è stato tutto in discesa: prima vincita milionaria a un disoccupato di Genova, a una casalinga di Bologna. Storie che hanno aiutato a ingigantire il gioco e a renderlo mito. E dal mito è iniziato a farsi tutto enorme, e quand’è enorme va regolarizzata quasi per natura. Così, nel ’48, il presidente Einaudi nazionalizza l’invenzione di Della Pergola: prima legge con cui lo Stato certifica l’esistenza della schedina, denominandola appunto Totocalcio. Ossia: totalizzatore calcistico.

Avete capito bene: Della Pergola viene così beffato. Perché il Coni si tiene il Totocalcio, la Sisal invece rimane con il Totip (boom, ai tempi, sull’ippica). Ma non tutti i mali (del giornalista) vennero per nuocere (lo sport azzurro): il Coni seppe reinvestire tutto soprattutto nei grandi eventi italiani. Le Olimpiadi di Roma, tanto per iniziare. Cortina, quattro anni prima. Il record? 5.549.756.245 lire nel 1993. Un boom che segnò anche l’inizio della fine del totocalcio: da anni, infatti, il mito è finito e ha lasciato spazio alle case di scommessa private. Il sogno è rimasto, sono cambiate solo le modalità. E le modernità.