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È il 3 maggio del 2003.

L’Euro è entrato da qualche mese nelle nostre vite, il Milan è ad un passo dalla conquista della sesta Champions League e il calcio italiano, protagonista della finale e delle semifinali del massimo torneo per club in Europa, è in grande condizione – per usare un divertente eufemismo.

Contro il Como di fatto già ampiamente retrocesso, in quello che è un derby senza storia, il Milan sta vincendo 2-0 e Ancelotti decide di far rifiatare gli elementi migliori. Esce Massimo Ambrosini, il solito tuttofare del centrocampo rossonero, e al suo posto entra Clarence Seedorf, il quale insieme a Pirlo forma una delle migliori mediane della storia del calcio.

Ma la storia, in quel frangente, sta per scriverla Rivaldo.

Lampi di classe

Il brasiliano, ancora a secco e con appena sette gol segnati fino a quel momento in tutte le competizioni, vuole lasciare un segno a San Siro e al campionato.

Per farlo, decide di venirsi a prendere la sfera al limite del cerchio di centrocampo. Stoppa il pallone quasi svogliatamente, poi col passo felpato che ne contraddistingue lo stile tecnico effettua un primo dribbling di esterno sinistro.

Si ritrova davanti a sé un altro giocatore del Como, e lo salta nello stesso identico modo col quale ha appena superato il primo: tocco di esterno mancino e via fino alla trequarti avversaria, dove lo attende solo il portiere avversario.

Inzaghi, che gli ha portato via un uomo, reclama a gran voce il pallone sui piedi in perfetto stile pippogol. Ma Rivaldo va per le sue. Dà un rapido sguardo al portiere, lo vede fuori dai pali, in uscita, e decide di beffarlo con un cucchiaio morbido e preciso, che si stampa beffardamente sulla traversa. Dopo essere tornato in campo, fuori dalla linea di porta, tutto San Siro fa eco a quella giocata incredibile, fallita per un millimetro.

Ancelotti si mette le mani tra i capelli, genuinamente sorpreso dalla distanza che in quel momento intercorre tra la classe sconfinata di un giocatore e il destino che ne ha già deciso le sorti: l’addio a fine stagione.

Rivaldo al Milan ricorda quel brusco fenomeno che Madre Natura ha voluto generare nella povera falena: attratta dalla luce che dà colore alle sue ali, essa finisce per fondersi con quella e bruciarsi senza ritorno d’immagine né d’essenza.

Perché Rivaldo-Milan non ha funzionato?

Quando Rivaldo arriva al Milan è uno dei migliori giocatori del pianeta. Ha appena vinto il Mondiale (da protagonista) e ha quel nome esotico, simile al predecessore brasiliano per eccellenza (Ronaldo il fenomeno), che fa innamorare prima Berlusconi, poi Galliani e infine i tifosi rossoneri.

Ma l’amore tra il club meneghino e l’ex Barcellona non esplode mai. In primis per ragioni personali.

Rivaldo è pallone d’oro, ha vinto praticamente tutto ciò che un giocatore può vincere in carriera – paradossalmente al palmares, a fine stagione, si aggiungono comunque Champions e Coppa Italia – ed è in piena crisi saudade per l’addio della moglie. Che a Milano non si affeziona mai e decide di tornare in Brasile molto presto.

Poco dopo l’altro gol-non-gol che definisce l’esperienza di Rivaldo in rossonero, quello contro il Modena alla prima giornata di campionato. Gli emiliani sono tornati in A dopo più di 30 anni e perdono già 3-0 quando Rivaldo entra a 10’ dalla fine e segna, con un gol di tacco su assist rasoiato di Serginho il gol del 4-0. Annullato per una questione di centimetri.

Nemmeno protesta Rivaldo, in quel caso. Non è arrabbiato perché sa che ne segnerà tanti altri. Non è così.

L’ultimo gol di Rivaldo col Milan, paradosso dei paradossi, avviene con le stesse modalità del primo gol annullato ma ha un esito diametralmente opposto.

Il campione brasiliano segna il gol dell’1-0 davanti ad un San Siro festante per la Champions League appena vinta e perché il ritorno di Coppa Italia che si sta disputando in quella occasione è già stato deciso all’andata (Roma-Milan 1-4). L’assist è sempre di Serginho, l’altro brasiliano di movimento in quel Milan.

Quando la palla torna a Rivaldo dopo aver gonfiato la rete, il brasiliano non va ad abbracciare il connazionale, non gioisce coi tifosi né esulta da sé. Semplicemente, scaglia il pallone con rabbia una seconda volta in fondo al sacco.

Poi si fa abbracciare dagli applausi di un San Siro che gli tributerà una standing ovation. Il campione triste saluta tutti. Otto gol in quaranta presenze, e una storia che vale comunque la pena di raccontare.