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Come insegna il maestro Socrate, prima di avviarci sulla strada del “sapere” è bene interrogarsi – dubitandone radicalmente – sulle reali capacità del nostro intelletto. L’esercizio del dubbio, che in effetti recide come un coltello nel burro tutta la storia del pensiero occidentale, è auspicabile anche in un campo – quello sportivo, e calcistico in particolare – nel quale il più diffuso atteggiamento, lungi dall’essere scettico, è unilateralmente dogmatico.

Prima domanda, dunque: esiste, o è mai esistito, un problema attaccanti nella Nazionale italiana? Roberto Mancini, attuale CT degli Azzurri, ha già risposto all’interrogativo un paio di mesi fa: « L’unico [attaccante] che gioca titolare da tempo è Immobile, per il resto è anomalo che in Serie A ci siano così tanti attaccanti stranieri. Le grandi squadre ragionano così da un po’ di tempo, ma spero non sia un processo irreversibile e che presto possano uscire 2-3 attaccanti per il futuro dell’Italia. Non è un problema piccolo ».

Il problema degli attaccanti italiani in Serie A

La magna quaestio sollevata dal Mancio merita una riflessione, parola per parola come facevano i medievali commentando i Libri Quattuor Sententiarum di Pietro Lombardo. Prima però una premessa di metodo: Mancini espone il “problema attaccanti” – che in questa sede va ancora verificato – come se si trattasse di un fardello esterno alla sua gestione tecnica. Detto altrimenti: il problema attaccanti, per Mancini, non è imputabile al contesto degli attaccanti in maglia azzurra, ma va anzitutto – se non esclusivamente – cercato nel loro rendimento (presenze, gol e assist) in campionato.

Permetteteci di dissentire dal nostro amato CT. Quella degli “stranieri” è senz’altro un’anomalia della Serie A, ma non può essere l’unica causa della moria di attaccanti italiani – forti –, anche perché dalla Sentenza Bosman di decenni ne sono passati. Il punto vero, semmai, è che nel nostro campionato ci sono pochi attaccanti italiani perché pochi sono “forti” e pronti per fare i titolari. Mancini parla di “grandi squadre”, quando il problema risiede probabilmente nelle rose delle “piccole” – senza che nessuno si senta offeso –, quelle squadre cioè che vanno dalla 12esima/13esima in giù.

La nostra tradizione parla in questo senso: tutti i grandi attaccanti del passato sono diventati tali nelle medio/piccole realtà, non di certo iniziando – d’emblée – in una squadra costruita per vincere lo scudetto. Ci sono delle eccezioni, chiaramente, ma sarebbe qui ingeneroso ragionare per eccesso e all’opposto di quanto andiamo dicendo: “i veri campioni come Totti e Del Piero erano già Totti e Del Piero a 19 anni”. Ma quelli erano Totti e Del Piero, non (con tutto il rispetto) Pinamonti e Scamacca – pure due ottimi attaccanti, accomunati dal destino in neroverde; il Sassuolo è in questo esempio davvero un club modello per l’offerta di italiani, giovani e promettenti, da donare alla nostra nazionale; esso rappresenta tuttavia un’eccezione in termini di calore della piazza, pressoché nullo, e di situazione finanziaria, a dir poco verde: due fattori che aiutano i giovani a crescere con tranquillità e fiducia da parte del club. Detto altrimenti, e con una parola sintetica: se il giovane italiano è forte, gioca. Se gli si preferisce uno straniero, il motivo non è (semplicemente) economico, ma tecnico.

Il problema del rendimento degli attaccanti in Nazionale

Mancini dovrebbe però riflettere con più forza e modestia sulla situazione realizzativa della nazionale sotto il suo mandato. La media più alta è di Ciro Immobile (guarda caso), con 8 gol in 23 partite. Numeri imbarazzanti messi a confronto con quelli della Lazio, da imputare in piccola parte (ad avviso di chi scrive) alla personalità dell’attaccante partenopeo, e in buona parte invece al modo di giocare dell’Italia di Mancini, che ha parzialmente mutato l’estenuante possesso palla orizzontale e senza attacco alla profondità (quest’ultima rappresenta il pane quotidiano di Ciro Immobile) nelle ultime due uscite, ottenendo non a caso ottimi risultati. Barella poi ha gli stessi gol di Immobile, 8, ma in 38 partite (giocando a centrocampo, è un’ottima media). Sempre Belotti è a 8 gol, in 29 partite – certo, non tutti segnati in gare propriamente ostiche. Il secondo miglior marcatore è Insigne, con 6 gol (come Berardi). Se calcoliamo che Mancini allena l’Italia da 55 partite, i numeri offensivi sono decisamente striminziti. Non può essere chiaramente colpa del CT, ma neanche esclusiva responsabilità del “calcio italiano” come sistema e come individualità.

Mancini in effetti riduce un problema ontologico ad un momento storico specifico (quello attuale). Guardando però la classifica marcatori all-time in nazionale, dietro Meazza e Riva c’è il vuoto cosmico in termini di gol. Giocatori iper-prolifici in Serie A – riprendendo l’esempio del Mancio – come Toni e Vieri – hanno medie decisamente più scarne in nazionale. Non può dirsi lo stesso però per altri attaccanti, contrariamente all’opinione diffusa. Se Chiesa e Riva viaggiano su medie strepitose in maglia azzurra (a partita, rispettivamente, 0.99 e 0.85), anche Inzaghi (curiosamente) ha una media più alta in nazionale (0.67) che col club (0.57, si calcola la sola Serie A). Un’altra leggenda del calcio come Baggio è a 0.59 in nazionale e 0.51 in Serie A.

L’attaccante è la punta dell’iceberg di un problema più profondo nel calcio italiano

Non è giusto, ça va sans dire, puntare il dito sulla Sentenza Bosman, responsabile secondo alcuni di aver contribuito numeri alla mano (negli ultimi 27 campionati, solo in tre occasioni il podio della classifica di Serie A è stato occupato da tre marcatori italiani; stagioni 95/96, 04/05 e 06/07) all’impoverimento del calcio italiano negli ultimi 27 anni. Si badi bene: qui il discorso andrebbe ampliato ai settori giovanili, da dove tutti i mali (e i beni) provengono. Preoccupa, questo va detto, la fuga dei cervelli calcistici Scamacca e Lucca in Premier ed Eredivisie (e se invece fosse una risorsa per il loro rendimento in nazionale?). Quagliarella e Immobile (quattro volte capocannoniere e Scarpa d’Oro nel 2019/20) sembrano insomma aver predicato nel deserto.

Come se poi, detto per inciso, il problema attaccanti non fosse che il riflesso – più visibile di altri, in un gioco come quello del calcio dove goal sta per obiettivo, non solo linguisticamente parlando – di un problema più ampio, riguardante anche l’assenza di 10 di livello, ma anche di esterni di caratura internazionale e difensori che prendano degnamente il posto delle colonne uscenti o da poco uscite di scena (Chiellini e Barzagli). Insomma, quello degli attaccanti è un problema vero, ma è parte – non essenza – di una crisi più ampia che investe il nostro calcio da almeno un ventennio – se è vero che l’ultima grande nazionale fu quella del 2006. Il gioco di Mancini e il miracolo azzurro agli europei del 2021 hanno nascosto la polvere sotto alla panca degli spogliatoi. Laddove crescono, ed evidentemente appassiscono, i nostri fiori più belli: quelli provenienti dai settori giovanili.