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“Nella Roma migliore di tutti i tempi, come centrali prendo due stranieri: quello falso, Vierchowood, e quello vero, Aldair“. Nils Liedholm si sfrega le mani, come se conoscesse solo lui le potenzialità di quel giovane centrale, chioma riccioluta, appena 24 anni, che salta sull’aereo più veloce del mondo che definirà la sua carriera. Lisbona-Roma, gioco di capitali per… un capitano. Silenzioso ma non per questo poco efficace. Abituato ai fatti, ma non senza il talento di caricare i suoi compagni, di reparto e di squadra.

Ha giocato fino a una decina di anni fa, e per quel ragazzo nato a fine ottobre del 1965 non era certo qualcosa di scontato. Ma prima delle (bellissime) esperienze nello Stato di San Marino, un tuffo verso gli inizi. E una nuotata in quell’immaginario Tevere che contiene 13 anni di onoratissima carriera, in cui di fatto ha vinto tutto: un Mondiale, due Copas America, una Confederations Cup. E lo scudetto, sì. Lo scudetto con la Roma.

I primi passi

Lo scudetto che arriva dopo una traversata bella, lunga, non sempre trionfale. Soprattutto con i club. Il destino l’ha collocato a Ilheus, un comune dello stadio di Bahia, dove i campi erano di fortuna e di talent scout, ecco, poche ombre e pure sbiadite. Aldair, consapevole della sua forza e del suo talento, decise allora di trasferirsi a Rio De Janeiro. Chiamò un parente, s’infilò a casa sua e dormì per mesi interi sul suo divano: voleva una squadra, obiettivo e desiderio. Diventato presto realtà, perché davanti a determinate doti non ci si sottrae.

Ecco, il primo provino è per il Vasco Da Gama: scartato. Per il secondo dovrà ringraziare a vita Juarez, ex giocatore: mentre disputava una partita di amici, lo notò e gli chiese di provare per il Flamengo. Detto, fatto, ingaggiato. Nel 1985 giocò qualche gara con la prima squadra; nel 1986 lo spazio aumentò e fu utilizzato come titolare. Vinse il Campionato Carioca, ovvero il torneo dello Stato di Rio. Nel 1987, il Flamengo alzò il titolo nazionale e Aldair giocò senza sosta, fino a quando arrivò la prima chiamata dall’Europa.

Era il 1989, 24 anni appena compiuti. Passò al Benfica di Lisbona, che aveva appena ceduto Mozero al Marsiglia. Alla prima esperienza fuori dal Brasile giocò 21 partite da titolare con 5 gol. Tanti, tantissimi per un centrale difensivo, sebbene si trattasse di una delle prime versioni “rivisitate” del ruolo. Ossia? Un danzatore di posizione, uno dei primi ad abbinare il fare rude di chi deve evitare guai all’eleganza del tocco, il pragmatismo del risolutore di problemi alla specialità lancio lungo. Poi, la personalità. Strabordante. Enorme. In grado di annichilire gli avversari.

Per la Roma

Insomma, se ne innamorarono tutti. I brasiliani, che ben presto lo ergeranno a idolo di due delle nazionali più forti di tutti i tempi; gli italiani, che dopo un anno di campionato portoghese – ah, giusto per la cronaca, quel Benfica arrivò fino alla finale di Champions League, persa a Vienna contro il Milan più forte di tutti i tempi – lo ritrovarono alla Roma. Dino Viola fece infatti prima di tutti: 6 miliardi di lire e una storia pazzesca pronta a iniziare. Pronta a durare, quasi in eterno. Ma eterno non è nessuno, a parte l’Urbe, e Aldair si è ritrovato in 13 stagioni a vincere subito una Coppa Italia e dieci anni dopo il campionato di Serie A. Diventandone capitano dopo l’addio di Balbo nel 1998, cedendo poi il ruolo a Francesco Totti.

A proposito, conoscete la storia del passaggio di testimone? Fu di Aldair l’idea, che sul “ragazzo” non aveva mai avuto un dubbio, semmai sempre tanto affetto. Del resto, il Pupo era proprio come lui: di poche parole e tante giocate. “Ho pensato a cosa significasse Francesco Totti per il club e la città. Era un tifoso del club e uno dei giocatori più talentuosi. Ho pensato che sarebbe stato molto importante per lui essere il capitano della squadra e gli ho passato la fascia. La mia speranza era che diventasse ciò per cui era nato. Ho fatto la scelta giusta”, il suo racconto a ESPN.

Insieme, avevano vinto lo storico scudetto del 2001, in cui Aldair fu uno dei protagonisti assoluti. A parte il finale di stagione. Il motivo? Si ruppe il crociato e non riuscì a giocare le ultime sei partite. Nella pazzia e frenesia della città, in quel mese di festeggiamenti, il brasiliano restava però tra i più acclamati e la passione tra il popolo e il brasiliano ancora oggi è palpabile. Basta dire… “Pluto”. Come? Sì, Pluto. Il suo soprannome. E il motivo è di fatto intuibile, data la somiglianza tra ‘Alda’ e il personaggio Disney.

L’ultima partita

Il 24 maggio del 2003, la Roma decise di ritirare la maglia numero 6, indossata dal brasiliano per oltre dieci anni. Quando però nel 2013 arriva Kevin Strootman, l’olandese chiede proprio quel numero. Cosa fare? La società chiama Aldair, che acconsente e fa un grosso in bocca al lupo al centrocampista olandese. Voglio ringraziare Aldair – dichiarò Strootman –, so che è stato uno dei migliori calciatori di sempre ad aver giocato per la Roma. È un dovere cercare di ripetere quanto raggiunto da lui con questo Club e spero che i tifosi possano darmi per questo tutto il supporto di cui ho bisogno”.

L’umiltà, insomma, è sempre stata prerogativa di Pluto. Così come l’amore per la Roma, specialmente in sede di mercato. Fino all’addio del 2003 (andò poi un anno al Genoa), Aldair fu due volte vicino alla cessione: la prima dopo la vittoria ai Mondiali di Usa 1994, con Sensi che respinse un’offerta di 9 miliardi dal Tottenham. La seconda, cinque anni più tardi, dall’Inter: c’era già un pre-contratto! Alla fine, prevalsero i sentimenti. Per lui, “nato” a Roma il giorno stesso dell’Olimpico, quel 5 settembre del 1990. E che con la Roma ha coronato il sogno di una città, da leggenda e sostanza. Da ‘Alda’, e come lui nessuno più.