Vai al contenuto

Fin da quando è arrivato a Milano sponda Inter, Lautaro Martinez ha sempre avuto una buona percentuale di detrattori all’interno e all’esterno dell’ambiente nerazzurro, non solo per alcuni periodi di magra realizzativa, ma anche per una certa impressione di svogliatezza che in pochi gli hanno perdonato.

Dalla seconda metà della scorsa stagione, artefice massimo della cavalcata europea che ha portato i milanesi alla conquista della finale di Champions League persa dal Manchester City, il Toro ha messo in evidenza proprio l’esatto contrario di ciò per cui si era sollevato qualche sopracciglio e, oggi come oggi, è diventato il vero leader in campo e, da quello che trapela, anche all’interno dello spogliatoio.

Ma c’è un altro protagonista del successo interista, che glielo ha permesso.

Inzaghi e il gruppo compatto

La partita di sabato sera che ha visto l’Inter travolgere l’Udinese in casa per 4-0, ha messo per l’ennesima volta in evidenza il gioco di una macchina che sembra palesare a tutti una meticolosa scelta degli interpreti in campo, che lavorano per il conseguimento di un obiettivo comune.

L’Inter, anche nelle stagioni più positive del dopo triplete, parliamo dunque di 13 anni di alterne fortune mai comunque all’altezza di quella dell’ultimo anno con Mourinho in panchina, non aveva mai più dato l’impressione di mettere a fuoco un traguardo per il quale fossero tutti soddisfatti e convinti del fatto che giocare per vincere significa sacrificare buona parte dei propri obiettivi, per mettere al servizio le proprie qualità in nome di quella che tutti chiamano “vittoria del gruppo“.

Inzaghi, al suo terzo anno in nerazzurro, ha preso invece coscienza della necessità di fagocitare un gruppo che andava spesso per i fatti suoi nelle annate meno positive e, imparando proprio dai propri errori, ha costruito anno dopo anno, anche alla luce di alcuni colpi magici dell’ex avversario Marotta, un gruppo che ha in testa un solo scopo, quello di vincere senza dare troppa importanza al singolo, semmai, facendoglielo credere.

Il concetto di causa-effetto completamente ribaltato

Se pensiamo alle annate precedenti, vi è stato più di un caso di giocatori arrivati a Milano con l’idea di mettere a disposizione le proprie qualità al servizio della propria carriera e di un futuro più roseo e duraturo in una squadra come l’Inter che lotta sempre per vincere il titolo, accada quel che accada.

La vetrina di San Siro è troppo importante, diciamolo subito, per pensare che il proprio animo umano non si faccia abbindolare dalle sirene rappresentate da un contratto più alto, da condizioni più vantaggiose, da benefit di lungo termine, in virtù delle quali, gioco forza, viene a mancare una cospicua parte di quell’impegno che dovrebbe invece andare a favore della conquista delle vittorie.

Da quando Simone Inzaghi siede sulla panchina dell’Inter, questo non è più tassativamente permesso, la cronologia semantica della quale si sente sempre parlare che antepone una causa ad un effetto, con l’allenatore piacentino è diventata effetto-causa.

Non vi è più l’impegno del singolo che porta il singolo stesso a procurarsi una condizione migliore, ma è il risultato di tale sforzo e di tale impegno ad assicurare un risultato importante della squadra, può essere una finale di Champions, uno Scudetto, una Coppa Italia e, per effetto di tale risultato, è la carriera di ognuno dei giocatori a giovarne in termini di rinnovi contrattuali, di interessamento da parte delle altre squadre, di considerazione maggiore a livello internazionale.

Pur non facendo parte dei giocatori di movimento, il caso di Onana è sintomatico. La fiducia che l’intera squadra aveva sui propri compagni, ha fatto disputare, chi più chi meno, una stagione eccezionale da parte di quasi tutta la rosa, anche a quei giocatori che, grazie a questa fiducia, sono riusciti a mascherare una capacità tecnica non esattamente insuperabile.

Certo, questa sembra una stagione stregata per l’ex numero 1 dell’Inter, ma appare a tutti abbastanza palese che l’ambiente e i continui mugugni dei tifosi dello United, non siano esattamente d’aiuto per un giocatore che riveste il ruolo più delicato agli occhi degli osservatori, e di certo quello per cui gli errori sono maggiormente visibili.

Il centrocampo delle magie

Se vogliamo portare altri esempi piuttosto facili da mettere in mostra, il perno del centrocampo nerazzurro, Hakan Calhanoglu ed Henrikh Mkhitaryan, sembrano essere quelli che saltano agli occhi più degli altri.

Il turco è definitivamente entrato quest’anno nel novero degli ex giocatori milanisti più indigesti ai tifosi rossoneri, ma non è certo solo merito del nuovo o demerito del vecchio Calhanoglu, se tutto questo è successo. La collocazione in campo è esattamente quella che lui predilige. La sua zona di competenza varia, se così si può dire, dal vertice basso del centrocampo, o se preferite quella che occupano i mediani delle squadre che giocano a due davanti alla difesa, fino a quei pochi metri che servono per dialogare coi compagni del reparto offensivo e/o, ancora, per lanciare uno dei due esterni come è successo in occasione del rigore contro l’Atalanta originato dall’incredibile filtrante del turco a favore di Darmian.

Il figlio di Hamlet, invece, sta giocando probabilmente la sua stagione migliore da quando è approdato all’Inter. Del vecchio Mkhitaryan che aveva fatto la miglior mostra di sé al Borussia Dortmund e, più a sprazzi, al Manchester UTD, all’Arsenal e alla Roma, si sono avute notizie sempre meno incoraggianti, atte a sottolinearne l’età che incede senza sconti anche per lui, ma che sembra essersi azzerata all’arrivo alla corte di Inzaghi a inizio 2022, svincolato dopo la decisione di non rinnovare con i giallorossi e promosso con i galloni di intoccabile, o quasi, dall’allenatore piacentino che lo piazza alla destra di Calhanoglu nel centrocampo a 5, a fare il gemello di, udite udite, Nicolò Barella, che di anni ne avrebbe 8 in meno, cosa questa che si vede in campo, e ci mancherebbe, ma che forma con l’armeno il duo di mezze ali più devastante dell’intero campionato.

Le finte magie di Lautaro Martinez

Se pensate di aver letto il titolo di un articolo e di esso non ci avete trovato quasi nulla, non disperate, la vostra pazienza è stata ripagata.

Martinez era stato chiamato a prendere possesso della zona occupata da colui il quale in quegli anni era considerato il centravanti titolare dell’Inter senza “se” e senza “ma”, Maurito Icardi che di gioie in nerazzurro ne aveva seminato non poche in casa Inter, ma il personaggio che si era costruito al di fuori del campo, le continue mezze verità del suo procuratore/moglie Wanda Nara, alcuni comportamenti non proprio utili alla causa che, anzi, delegittimavano una fascia di capitano non proprio gradita a buona parte della tifoseria più focosa e dichiarazioni contrastanti sul proprio futuro.

Nonostante l’ingombrante presenza di Icardi, peraltro interrotta parzialmente dopo l’eliminazione in Coppa Italia contro la Lazio e messo fuori rosa da Spalletti per qualche settimana, Lautaro riesce a ritagliarsi un posticino nel cuore dei tifosi, mettendo a segno 9 reti e un assist.

Dopo il primo anno da titolare quando segnerà a fine stagione 21 reti, Lautaro si ritrova a ricevere estrema fiducia da parte dei propri tifosi, quando guida la squadra nel 2020/2021 alla conquista del suo scudetto giocando ben 38 partite e segnando 17 reti.

Ma non basta. Nell’estate del 2021 arriva Simone Inzaghi al posto di Conte e le responsabilità della punta argentina cambiano e non di poco. Fino all’anno precedente si faceva riferimento alla coppia di attacco tra Lukaku e Lautaro con il belga a fare da metronomo e decidere i movimenti di entrambi, visto che il gioco che proponeva l’allenatore salentino metteva spesso in condizione i centrocampisti a cercare il Big Rom, con Martinez costretto ad adeguarsi a seconda dello sviluppo dell’azione.

E sta qui la metamorfosi della punta argentina, passato da puro e semplice puntero dello schieramento, a vero uomo tutto fare della squadra di Inzaghi.

Con l’Udinese lo abbiamo visto ripiegare in almeno tre occasioni, due di queste alla riconquista del pallone sugli esterni friulani, entrambe le volte al secondo tempo, sintomo di una condizione fisica, atletica e soprattutto mentale, che pare essere comune a molti degli uomini a disposizione del fratello di Pippo, lui ,sì, in grossa difficoltà in quel di Salerno.

Le specialità di Casa-Martinez, quindi, cominciano ad essere un po’ troppo ingombranti per gli schieramenti avversari, che devono fare i conti con un uomo che sembra sdoppiarsi e volersi staccare da quello classico di centravanti e finalizzatore della manovra, cosa che, peraltro, Martinez riesce a fare alla grandissima, visti i 16 gol realizzati fin qui, dei quali 14 in campionato e 2 in Champions League, ma è tutto il corollario che impressiona.

La sua incredibile versatilità lo ha portato a esplorare zone del campo che esulano da quella di sua competenza nella quale svaria a sinistra, a destra e al centro, ma ad albergare anche come guastatore della fase di costruzione avversaria, ai margini della linea centrale di centrocampo, laddove va a prendersi i palloni come quello che ha dato origine alla sontuosa rete del 4-0 nel finale di partita contro l’Udinese.

Ma anche in questo caso sembra che il merito sia soltanto suo, ma quel demone in panchina, sembra sapere il fatto suo: Causa-Effetto… Effetto-Causa.