L’idolo di una vita? Un milanista. E che milanista. Giancarlo Antognoni, nato a Marsciano, vicino Perugia, era nato tifoso rossonero e no, non se lo sarebbe mai aspettato di diventare una bandiera di una squadra così diversa e così importante. A Perugia, proprio suo papà aveva aperto la sede di un Milan Club dove sognava di giocare da ragazzino.
Alla fine? Lo comprò il Torino. In 1969 in cui l’Italia cambiava e lo fece per sempre anche la sua carriera. La “Bandiera” non sventolava ancora, ma il carisma di Antognoni era già eco dei campetti di periferia.
Oh, da dove partiamo? Dai tempi granata a dagli inizi degli anni Settanta: al Torino giocò appena un’amichevole, prima di andare addirittura in Serie D, a farsi le ossa. Giocò all’Asti MaCoBi e aveva appena sedici anni. Il destro già fatato, ma muscolarmente tutto ancora da sviluppare. La Fiorentina del presidente Ugolino Ugolini lo acquistò come un atto di fede: 435 milioni di lire per prendere questo ragazzotto dalle bellissime speranze, che a 18 anni avrebbe dovuto crescere, vedere, maturare, capire. Capì tutto. E lo capì subito.
Una vita in viola
Antognoni esordì subito, già il 15 ottobre del 1972, l’anno del passaggio in viola. Lo fece sul campo del Verona, con la maglia numero 8: non ebbe alcun modo timore di quello che c’era da fare, delle attenzioni che il suo nome stava inevitabilmente ricevendo. E allora, nel batti e ribatti della vittoria fiorentina, uno spezzone di Corriere dello Sport lo definì addirittura “un giovanissimo Rivera“. Apriti cuore: era il suo idolo, ed era già una vittoria essere lì, nella squadra che tre anni prima aveva vinto sorprendentemente uno scudetto.
L’ambizione del club era rimasta la stessa, anche se negli anni Settanta la Juventus di Boniperti era ormai pronta a sfruttare una generazione di talenti forse seconda a nessun’altra. Mancava un organizzatore, un giostraio della manovra.
Liedholm, il barone, aveva affidato le sue speranze proprio in questo ragazzino. “Se quello non diventa un campione smetto di allenare“, aveva detto mentre scarrozzava proprio Antognoni in uno dei raduni juniores dell’Italia, a Coverciano. Ma cos’aveva di così speciale, Giancarlo? Era un dieci. Ed era unico: aveva falcata e giocate, intuizione e potenza. E l’aveva preso la Fiorentina, facendo ammattire tutti.
Celebre, il racconto su Agnelli: “Ogni volta che incontravo Agnelli ripeteva sempre: ’Caro Antognoni, avrei voluto prenderla ma lei si è sempre rifiutato’”. Viola gli avrebbe dato anche “piazza di Spagna per vedermi in giallorosso“. Ma disse no. No, perché era della Fiorentina.
Dal 1972 al 1987 mise insieme 341 gare e segnò 61 reti. Per scoprire il significato di Bandiera – anzi, i significati – basta ripercorrere ogni singolo istante di Giancarlo e Firenze, una storia in cui a legarsi furono tutti e i tasselli andarono nei posti giusti. Mancò qualcosa in termini di palmares, vero: una sola Coppa Italia, quella del 1975. Ma l’amore di Firenze è stato, come spesso si dice, la colmatura del vuoto e il sublimare quell’andatura “nobile”, da Signora in piazza della Signoria.
Quel mondiale e l’immagine di Madrid
Due episodi, i più sofferti, raccontano la grande storia di Giancarlo: nel 1982, la ginocchiata subita da Martina che rischiò di fatto di ucciderlo; e nel 1984, lo scontro con il libero della Sampdoria, Pellegrini, che gli frantumò tibia e perone. Si rialzò con l’amore della sua gente.
Antognoni è sempre stato un giocatore con lo sguardo rivolto verso l’alto.
Caminiti diceva di lui che “giocava guardando le stelle“. Forse perché ne avrebbe voluta qualcuna dalla sua parte, dato il percorso non sempre semplicissimo.
Nel Mondiale in Argentina, incantò per una gara e poi ebbe la tarsalgia. Quattro anni più tardi, nella sfida col Brasile in Spagna 1982, si vede annullato un gol perfetto, ingiustamente cancellato. L’avrebbe portato nell’olimpo. E in semifinale con la Polonia? Si lacera il piede nello scontro con Matysik, salta la finale con la Germania.
Oltre le vittorie con la Fiorentina, il messaggio, il carisma, il suo essere un dieci elegante in campo e fuori, la vera immagine di Antognoni sarà sempre questa: ha appena vinto la Coppa del Mondo, tutti esultano e impazziscono. Lui a bordocampo, a non disturbare, senza togliere la scena a chi ha sudato in quell’epilogo. Si disse – e si scrisse – di un frame simbolico: non era adatto a vincere, per tanti. In realtà, era la gentilezza e la consapevolezza di chi aveva trascorso troppo tempo a essere un dieci inascoltato.