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Dobbiamo tornare indietro a un’epoca in cui il calcio era completamente diverso da quello che siamo abituati a vedere nei tempi moderni, per rendere omaggio ad uno dei giocatori che hanno fatto sognare tre squadre come Atalanta, Bologna e Napoli, Beppe Savoldi.

Duro e puro, bergamasco doc

Ci sono storie dei campioni del passato che sembrano delle favole d’altri tempi, in cui si mescolano storia, sacrifici, sport vari ed esplosioni improvvise.

Savoldi incarna alla perfezione il prodotto di una combinazione di questo tipo, anche e soprattutto perché il ricordo indelebile lasciato dai suoi colpi di testa, fa capo ad un personaggio che fuori dal campo ha sempre evitato i riflettori e i comportamenti oltre le righe, ai quali il colosso bergamasco si è sempre sottratto.

Erano gli anni dell’immediato dopo guerra e Savoldi veniva su tra quattro mura umili, all’interno delle quali papà rientrava a casa tardi con la paletta di capostazione ancora tra le mani e mamma cuciva bottoni per arrotondare le entrate di famiglia in un momento storico in cui l’Italia si risollevava dalle ferite belliche.

Uomini tutti di un pezzo, che rivolgevano al pallone le poche distrazioni concesse rispetto a un’esistenza in cui il principale obiettivo era quello di portare a casa il pane e crescere i figli che avrebbero formato l’ossatura di un Paese sconvolto da macerie e inebriato dalla voglia di rinascita e ricostruzione.

In questo contesto “Il Beppe” si innamorò della palla rotonda.

Prima quella scura e pesante da pallacanestro e poi quella più chiara e leggere del football nostrano.

Passioni e lavoro

Savoldi veniva su bene, tra un tiro al canestro, un allenamento di salto in alto e un tiro all’incrocio dei pali nell’oratorio della città orobica.

Eh sì, perché se Beppe Savoldi ha lasciato il segno in Serie A, lo deve soprattutto grazie agli allenamenti sulla sua elevazione che, tra pallacanestro e atletica leggera, venivano affinati giorno dopo giorno, mese dopo mese.

In pieno passaggio tra pre adolescenza e adolescenza, Savoldi riuscì a mettersi in mostra in ben 4 discipline, le tre appena citate e il pentathlon, a certificare una certa versatilità che poi gli servirà quando ci sarà da strappare contratti importanti e far gridare allo scandalo i tifosi di un certo comparto sociale, non felice di leggere sui giornali le, allora, faraoniche cifre per un trasferimento di un calciatore da una squadra ad un’altra.

Intanto Beppe sceglie di ritirarsi da scuola e dare una mano alla famiglia. Lo fa anche per avere la possibilità di allenarsi, visto che non sono in pochi a consigliargli di mettersi sotto con lo sport, che, in un futuro prossimo, potrebbe dargli da vivere.

La fame è tanta, ma ai confini della maggiore età è tempo di fare le scelte drastiche e, anche se la palla a spicchi rimane un cruccio del quale non si libererà mai, Savoldi sceglie il calcio. Sarà una scelta indovinata, visto che qualche mese dopo esordisce in Serie A con l’Atalanta.

Gli inizi nel massimo campionato

Non passano nemmeno un paio di stagioni giocate alla grande nel campionato giovanile, che Savoldi esordisce in Serie A grazie ai consigli dell’allenatore magiaro Mihály Kincses responsabile dell’allora settore giovanile orobico.

Sarà la prima delle quattro partite che il colosso bergamasco giocherà in quella stagione, prima di accamparsi in qualità di titolare in prima squadra fin dall’anno successivo, durante il quale metterà a segno la bellezza di 17 reti, collezionate insieme alla successiva, quando il Bologna comincia a seguirlo e lo acquista nonostante un’ernia che ne limita le prestazioni causandogli dei fastidiosi mal di schiena, sfortunata costante della sua carriera.

Passato al Bologna, anche in virtù di un forte sconto derivato dal suo handicap fisico, Savoldi esplode grazie ai consigli del suo vero e proprio padre putativo, quell’Edmondo Fabbri che fornisce suggerimenti preziosi sia per quanto riguarda il miglioramento tecnico in area di rigore, che per la risoluzione dei problemi legati alla sua schiena.

Bologna è la meta perfetta per Savoldi, visto che fin da allora il capoluogo felsineo diventa la capitale del basket nazionale, con Virtus e Fortitudo che regalano gioie costanti ai propri tifosi.

È lo stesso Savoldi a raccontare che, combattuto tra il tifo prima verso l’una e dopo verso l’altra compagine cestistica bolognese, alla fine delle partite giocate in casa dal Bologna, la sua macchina partiva verso il palazzetto per godersi lo spettacolo del basket, anche e soprattutto alla luce dell’amicizia che lo legava ad alcuni giocatori approdati a Bologna e conosciuti durante la sua militanza nelle squadre giovanili di Bergamo.

Il passaggio al Napoli

Non erano in pochi a pensare che Savoldi, oramai nel pieno della sua maturità fisica e tecnica, stesse trascorrendo gli anni migliori della sua carriera in una squadra con la quale non sarebbe riuscito a vincere tanto.

Ed è così che le sirene delle grandi compagini, mai sorde ai talenti nazionali, cominciarono a farsi irrinunciabili e il nostro Ulisse si fece trascinare da quella che portava dritti dritti alle pendici del Vesuvio.

Fu un trasferimento tra i più chiacchierati della storia del calcio.

Intanto per la cifra, Savoldi fu valutato in totale 2 miliardi di Lire, così suddivise: 1,44 miliardi in quello che oggi definiremo cash, il passaggio di Clerici dal Napoli al Bologna e la comproprietà di Rampanti.

Apriti cielo. La situazione in cui versava la città di Napoli in quel periodo, parliamo del 1975, non era certo delle migliori. Il comparto economico partenopeo non era certo tra i più floridi della nazione. L’industria zoppicava, il turismo annaspava e l’economia reale, quella della popolazione, versava in condizioni piuttosto preoccupanti.

Nonostante questo l’affare si fece, anche perché l’allora presidente Ferlaino era piuttosto conosciuto per il fiuto verso gli affari calcistici.

Inoltre parliamo di un giocatore che nelle stagioni precedenti aveva segnato grappoli di gol con il Bologna, 85 in totale, tra i quali i 17 che lo incoronarono nel 1973 capocannoniere della Serie A insieme a Pulici e Gigi Riva.

Gli anni alla corte del Napoli si rivelano una mezza delusione, alla luce di un solo trofeo portato a casa, la Coppa Italia dell’anno del suo arrivo in finale contro il Verona, ma il tanto agognato scudetto arriverà solo quando al San Paolo arriverà Diego Armando Maradona, qualche anno più avanti.

Nel 1980 si chiude il ciclo partenopeo e Savoldi torna a Bologna per chiudere la carriera laddove l’aveva iniziata, ma il declino appare piuttosto palese, visto che segna 11 gol in 28 partite, prima di terminare la propria carriera con la non onorevole squalifica per il Calcio Scommesse, poi annullata dopo la vittoria dell’Italia ai mondiale di Spagna del 1982. Squalifica che per Savoldi è sempre stata uno smacco ingiusto e ingiustificato.

Di Savoldi rimangono le imprese nelle aree di rigore avversarie, come un centro della pallacanestro che catturava tutti i rimbalzi e che saltava più in alto di tutti. E solo per questo lo vogliamo ricordare.