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Se ci pensate bene, non esiste al mondo un’altra disciplina sportiva più iconica della gara dei 100 Metri piani. Rappresentato in molteplici maniere nei film, nei racconti e perfino in musica, quel tratto rettilineo di pista dimostra come, per poco meno di 10 secondi, si sviluppa la velocità massima che un essere umano può sprigionare.  

Ma le domande sono molteplici, partono da quelle prettamente sportive che fanno capo alle prestazioni passate e future degli atleti più scattanti al mondo, delle loro risposte mentali alle sollecitazioni, a quelle più allargate che ci portano alla possibilità di sconfinare al di sopra dei limiti umani, in qualsiasi campo delle nostre vite, il superamento delle sfide quotidiane, il miglioramento, il progresso.

Il record più spettacolare e amato dello sport

In modo del tutto convenzionale, si fa partire la cronologia della misurazioni dei 100 metri, a quelle ufficializzate dalla IAAF, acronimo che corrispondeva, in origine, ad una serie di quattro parole probabilmente un pochino datate rispetto ai tempi moderni: “International Amateur Athletic Federation”, poi variato in molteplici evoluzioni del nome stesso, fino al più moderno “World Athletics”, a seguito anche di tutta una serie di riscontri finanziari che con l’aggettivo “amatoriale”, hanno poco a che vedere.

Non sono in molti però a sapere e a ricordare che ben prima quel cambiamento di carattere ufficiale, che peraltro parte da luglio del 1912, da qualcosa come 20 circa venivano rilevati i tempi dei 100 Metri maschili nelle gare di velocità. 

La prima rilevazione del crono di una gara di 100M, di cui ha memoria l’uomo, fu effettuata a Parigi, il 4 luglio del 1891, quando a far segnare un tempo di 10,8, fu lo statunitense Luther Cary. 

Un tempo tutto sommato di non poco conto, se si pensa che in più di un secolo, il record mondiale dei 100 Metri è sceso di poco più di un secondo. 

Quel fantastico tempo, occorre sempre tenere presente che non esistevano i materiali di oggi, i blocchi di partenza di oggi, la superficie sulla quale si corre oggi e mille altre diavolerie che hanno aiutato a spostare il imite sempre un po’ più in là nel corso dei decenni, quel tempo, dicevamo, fu ripetuto parecchie volte a cavallo tra i due secoli, anche e soprattutto perché esso non teneva conto del secondo decimale, vero e proprio parametro su cui si è cominciato a lottare nei primi anni del XX secolo

L’era IAAF e i centesimi

Lasciando da parte la cronologia dei primati battuti e orfani dell’ufficializzazione, nel 1912 cominciano le rilevazioni della IAAF, addirittura un anno prima della sua formalizzazione ufficiale e l’elezione del suo primo, storico Presidente, lo svedese Sigfrid Edström, che rimase in carica qualcosa come 34 anni!

Il primo rilevamento cronometrico coi santi crismi dell’ufficialità, sarà invece quello del mitico sprinter, anche lui statunitense, Donald Lippincott che fece registrare alle Olimpiadi di Stoccolma un “10,6” il 6 luglio del 1912, allo Stockholm Olympic Stadium. 

Non fu un record facilissimo da battere, tutt’altro.

Passarono ben 8 anni, prima che qualcuno riuscisse a scendere sotto quel limite e ci pensò un altro americano, Charley Paddock, ad abbassare il limite a 10,4, anche questo piuttosto longevo, visto che il nuovo record fu fatto segnare ancora 9 anni più tardi, quando il canadese Percy Williams fermò il cronometro a 10,3 nel 1930.

Per sfondare il limite dei 10 secondi, occorre andare a disturbare la clamorosa prestazione di quello che, ai tempi, venne considerato una sorta di uomo della Provvidenza, lo statunitense Jim Hines, che fece segnare un tempo che per tanti anni fu una sorta di oggetto del desiderio per tanti atleti, speranzosi di passare alla storia come “l’uomo che ha sfondato la barriera dei 10 secondi”. 

Il ruolo toccò ad Hines che, non contento, si prese anche la briga di appuntarsi al petto il record più longevo della storia dei primati sui 100 Metri piani, visto che il suo 9,95 colto a Città del Mexico nell’ottobre del 1968, non fu superato in nessuna occasione fino al 1983, quando Calvin Smith, un nome con il quale alcuni dei nostri lettori cominceranno a familiarizzare in maniera meno difficoltosa, fece segnare a Colorado Springs un tempo di 9,93, abbassando il primato di altri due centesimi.

L’era moderna, Carl Lewis a Ben Johnson

La lotta a colpi di primati mondiali messa in atto dall’americano Carl Lewis e dal canadese Ben Johnson, a cavallo della parte finale degli anni 80 e quella iniziale degli anni 90, è con ogni probabilità il dualismo sportivo che i 100 Metri hanno offerto durante la loro storia. 

Per gli amanti di questa disciplina è sempre un colpo al cuore ricordare che quella rivalità sarà segnata per sempre dalla nuova frontiera del doping, una specie di rete nella quale cadde a più riprese il canadese, che regalò comunque pagine importanti alla storia dell’atletica leggera. 

I record dei Jamaicani

I 100 Metri dell’ultimo decennio sono invece abbinati al cannibale Jamaicano Usain Bolt, che prese l’eredità di un altro velocista, il connazionale Asafa Powell, fino al clamoroso tempo di Bolt che fece fermare il cronometro allo straordinario 9,58, ancora in lizza per battere il primato di longevità di Jim Hines, visto che venne realizzato ai Campionati del Mondo di Berlino il 16 agosto del 2009. 

Adesso la domanda che si pongono osservatori e appassionati dei 100 Metri, è quella che fa capo, prima di tutte le altre, al momento in cui quel limite possa essere ulteriormente abbassato: riuscirà mai qualcuno a scendere sotto la soglia dei 9 secondo? Sarà possibile per un essere umano?

Il limite umano

Sotto il punto di vista della biochimica e della matematica applicata allo sport, il matematico Reza Noubary, calcolò nel 2008 che non ci sarebbe stata alcuna possibilità che nessun uomo sarebbe mai stato capace di scendere sotto il 9,44. 

Quando Bolt, in maniera fulminea, abbassò il tempo a 9,58, fu invece parere di molti suoi colleghi matematici, che i 9 secondi sarebbero stati presto cancellati. 

Il problema è che la combinazione di fattori ambientali, a detta degli scienziati, sarebbe decisiva per un’impresa di questo tipo. 

Si parla segnatamente di vento in poppa ai limiti del regolamento e di aria più rarefatta e, alla luce di queste importantissime considerazioni, va sottolineato quello che deve essere considerato a tutti gli effetti il nocciolo del problema: quanto è corretto eticamente sfruttare quel tipo di “vantaggi” per superare il limite umano?

La risposta arriva da Peter Weyand, scienziato della Southern Methodist University, che fa il parallelo con il ciclismo, sport in cui sport, aerodinamica e materiali, possono incidere intorno all’1% rispetto alla prestazione di un atleta, cosa che nello scatto di un velocista ai 100 Metri non è affatto calcolabile, perché influenzata da fattori di conformazione fisica del tutto soggettivi che non possono originare relazioni predittive. 

Inoltre gli scienziati possono effettuare una misurazione per finestre di tempo limitatissime per quanto riguarda i 100M e i fattori che regolano la velocità della corsa, sono tutt’altro che intuitivi. 

L’enunciato appena riportato, in sintesi, origina una risposta di questo tipo: battere il record di Bolt sarà possibile e probabilmente non passeranno ancora tantissimi anni prima che succeda, ma per scendere sotto i 9 secondi, bisogna aspettare la nascita di una sorta di super uomo. 

E non è detto che questo non accada.