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Chi mal comincia, che opera può terminare? Rivisitazioni di detti popolari, per un allenatore che a Torino popolare non è stato mai. Carletto Ancelotti, il 15 gennaio del 1999, veniva ufficializzato come nuovo allenatore della Juventus.

Arrivava da anni incredibili, aveva trasformato Parma e a soli 40 anni si era scrollato di dosso l’etichetta di giocatore dall’eleganza sovrumana: era diventato un pupillo di Sacchi nell’era del sacchismo, un guardiolista di oggi però vent’anni fa.

La notizia, in quel gelido torinese di pieno inverno, in realtà non aveva sorpreso nessuno: se ne parlava da giorni, da settimane, tant’è che i giornali inquadravano già i guai tattici in cui il tecnico di Reggiolo si stava infilando. Seguace del 4-4-2 fisso, come avrebbe manovrato l’estro di Zidane?

Un modo, ecco, poi l’avrebbe trovato. Ma se dalla sua ha avuto qualche aiuto dal mercato, dall’ambiente circostante Ancelotti è stato semplicemente oscurato. A partire da quel 15 gennaio: i Fighters, gruppo ultras bianconero, forse il più importante, aveva riunito tutto il tifo della curva Scirea per discutere “della situazione”. Ancelotti partì con tre peccati originali: era romanista, era milanista, aveva allenato un club rivale come il Parma.

Un amore mai sbocciato

Nel suo libro, “Preferisco la coppa”, Carletto sintetizza in poche parole il pensiero di una vita. La Juve è sempre stata un ambiente a sé, diverso, in cui ti ci ritrovi o lo percepisci come ostile, magari senza sentimenti. Il piede non era certamente quello giusto, alla prima partita compare “Un maiale non può allenare” nel settore ospiti dello stadio Garilli di Piacenza.

“La Juventus era una squadra che non avevo mai amato e che probabilmente non amerò mai”.

Carlo Ancelotti

Pochi minuti più tardi, lì inizierà l’avventura di Ancelotti in bianconero. Era il 14 febbraio: avevano anticipato i tempi del suo arrivo (inizialmente previsto per l’estate ’99), stavolta accogliendo le dimissioni di Lippi che aveva già un accordo con l’Inter. Nel giorno di San Valentino, un primo tentativo di innamoramento: 0-2 a Piacenza. Per la prima volta in quell’anno, i bianconeri non subiscono gol.

È il primo di 853 giorni strani, particolari, incredibilmente andati in malora come una memoria deviata da un particolare che proprio non riesci a tollerare. Eppure in quella stagione i bianconeri raggiungeranno le semifinali di Champions League, perse con lo United, poi vincitore della competizione.

In campionato è settima: non ha raddrizzato la baracca, ma ha posto solide basi per lavorarci con tempo, spazio e ambizione. E magari con un ritiro fatto bene, le idee belle chiare. Lo spareggio di fine campionato porta i bianconeri a giocare l’Intertoto: in quell’estate la vittoria è scontata, dunque va in Coppa Uefa.

Col senno di poi, non esattamente una notizia meravigliosa. Perché anche quella sarà parte della disfatta di Ancelotti: dopo i primi tre turni, agli ottavi di finale si arrendono al Celta Vigo. La “tragedia” si consuma al ritorno, in Galizia: c’era da difendere un 1-0 sereno, si è trasformato in un 4-0 netto per gli avversari.

In campionato? Al girone d’andata la Juve è seconda, a fine marzo è 9 punti sopra Roma e Lazio, con 8 partite da disputare. È una Juventus bella, rampante, con le idee chiare e lo scudetto tra le mani. Finirà con il titolo per la Lazio, sotto i colpi della pioggia di Perugia, in una partita prima sospesa e poi ricominciata che ancora oggi è nel libro delle vendette promesse del destino.

Il colpo di coda e la mancata rivincita

Come si fa a rialzarsi dopo una batosta del genere? Come si può stravolgere tutto e restare fermi allo stesso punto? Ancelotti provò ad essere un colibrì: impegnava tutta la sua energia nel restare allo stesso posto, nonostante le provocazioni e le difficoltà, le batoste e la naturale pressione di un ambiente come quello juventino.

Tempo dopo lo definirà “come un’azienda“, nel senso che sul lavoro tutto deve filare liscio, il resto poco conta e soprattutto poco importa. Nella stagione 2000-2001, Ancelotti riparte lì dove si era fermato: ma è una squadra ferita, nonostante la forza incredibile.

Davanti a sé, a fine campionato, solo la strepitosa Roma di Fabio Capello, che non finisce poi così lontano. Il dramma – e se pensiamo alla carriera ci sembrerà così paradossale – arriva nuovamente in coppa, dunque in Champions League: i bianconeri non riescono neanche a superare la fase a gironi, chiudendo all’ultimo posto il proprio gruppo e perdendo anche la chance di giocare in Coppa Uefa.

144 punti in due anni non bastano a lasciare un ricordo positivo, non alla Juventus. A giugno 2001 le parti si separano: “vincono” i tifosi. Cosa? Quale battaglia? Il motivo di fondo? Tutto ancora sconosciuto a distanza di vent’anni ormai.