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Le caratteristiche che dividono le nozioni regolamentari di base del mondo sportivo professionistico statunitense e quello del Vecchio Continente, alle volte hanno preso storicamente vie del tutto diverse, altre, opposte. 

Una di queste differenze è senza dubbio quella che riguarda gli spartiacque che fanno capo alla retribuzione degli atleti che offrono i loro servigi alle squadre nei relativi sport. 

In Europa è un argomento tornato fortemente di moda dopo le ultime scaramucce, ci si passi il termine, tra alcuni club di calcio e i massimi organismi a capo dell’organizzazione dei tornei per club , UEFA in primis. 

Il Salary Cap

Forse non tutti sanno che le maggiori Leghe che amministrano gli sport più seguiti degli Stati Uniti, National Football League (NFL), National Basketball Association (NBA), National Hockey League (NHL) e Major League Baseball (MLB), sottostanno chi più chi meno, ad una dinamica di tetto salariale, ben distinto tra una Lega e l’altra, ma comunque avente come fine ultimo quello che dovrebbe essere l’equilibrio tra le squadre che giocano questi campionati. 

Non sempre accade, non sempre le cose vanno per il verso giusto, ma da quando esiste un’organizzazione mirata a tenere in piedi tutte le squadre che giocano il campionato nazionale, tramite un filo logico, uno dei primi problemi da risolvere, è quello della differenza di budget che, gioco forza, esistente tra tutte le realtà del Paese.

Negli States la medicina usata per far sì che questa differenza si senta nel minor modo possibile, si chiama Salary Cap.

Il limite salariale per uno sport professionistico americano, impone un tetto massimo all’importo TOTALE di denaro che viene utilizzato da una squadra per pagare i propri tesserati e che viene stabilito di anno in anno dalla Lega di riferimento.

Non solo equilibrio finanziario 

Capirà bene, il lettore, che il criterio utilizzato per il Salary Cap, fa riferimento a logiche di redistribuzione di denaro che entra a fiumi grazie ai diritti televisivi, al mercato interno ed estero, agli sponsor, alle capacità economiche dei proprietari. 

In NBA in particolare, si è giunti ad una sorta di compromesso, poi ne parleremo, affinché questo tipo di limite non rimanga insormontabile. 

Gli scopo sono: 

  1. evitare che una squadra ottenga un vantaggio maggiore e sleale rispetto alle altre rivali perché può permettersi un maggior numero di campioni
  2. consentire alle squadre meno dotate e con bacini di utenza più ristretti, di competere per la conquista del titolo e consolidare, se non aumentare, il proprio zoccolo duro di tifosi
  3. tenere equilibrato, nel limite del possibile, un campionato che mantenga appeal per i tifosi occasionali e per l’eventuale “sangue nuovo” che possa alimentare interesse da parte delle nuove generazioni e di chi si avvicina per la prima volta alla Lega NBA

Le parti in campo

Non sono pochi i pro e i contro di tali accorgimenti, sia lato giocatori che lato tifosi e osservatori.

Va da sé che un meccanismo come questo, limiti non solo il budget complessivo che va suddiviso per la squadra, ma possa lasciare scontenti alcuni dei giocatori che potrebbero ricevere in qualità di stipendio, degli emolumenti non congrui all’apporto che essi danno sotto il punto di vista tecnico e, talvolta, di richiamo mediatico complessivo a favore della franchigia. 

In un mercato totalmente libero, come potrebbe sembrare quello, ad esempio, del calcio europeo, si andrebbe incontro ad una sorta di mucchio selvaggio atto a tirare la corda al massimo, sperando che essa non si spezzi, esattamente come stava per accadere con il progetto della Super League, avanzato dalle squadre più blasonate del nostro Continente. 

Lato tifosi è un’opportunità maggiore per vedere crescere la squadra per cui si tifa, anche se facente capo di quel lotto che non ha un bacino di utenza, o un prestigio, dissimile a mostri sacri come Los Angeles, Philadelphia, Boston, New York, con risultati, come potrete voi stessi accertare, piuttosto concreti, visto che 76ers, Celtics, Clippers e Knicks, non sono freschissime di anello…. 

I giocatori free agent

Il meccanismo degli emolumenti elargiti ai giocatori, a prescindere dal meccanismo virtuoso del tetto salariale, non consente, comunque, di offrire maxi stipendi a qualsiasi giocatore, in qualunque periodo della propria carriera. 

Vi sono delle tappe da passare prima di diventare i nuovi Paperoni, il primo dei quali, il più importante, è il minimo salariale e lo stipendio da rookie. 

I giocatori chiamati al precedente draft dalle 30 squadre di NBA, devono sottostare ad alcuni anni di “praticantato”, ben remunerato, si intenda, che non permette però loro di intascare somme esagerate fin dal loro primo approdo nella massima Lega di basket. 

Ma allora, visto che esistono queste tappe, per quale motivo viene imposto il Salary Cap?

Semplice, fatta la legge, trovato l’inganno e viceversa. 

Il meccanismo dei free agent, dei giocatori, cioè, che possono mettersi “su piazza” non avendo vincolo contrattuale alcuno con qualsivoglia franchigia, permetterebbe loro di poter chiedere cifre esorbitanti con il team interessato. 

Se non ci fosse una regolamentazione atta a mettere un freno a tale situazione, avremmo da una parte giocatori accontentati in ogni loro richiesta e dall’altro le squadre con maggiore capacità di spesa, mettere a roster il maggior numero di campioni possibile. 

È infatti abbastanza risaputo che buona parte dei proprietari delle squadre NBA, non abbiano grossi problemi di investimento, anzi, tra tutte le spese della gestione di una squadra, quella per i salari non è nemmeno la più preoccupanti. 

Per provare a mettere d’accordo tutte le parti, è stata istituita la Luxury Tax.

Salary Floor e Luxury Tax 

Per quanto riguarda il Salary Cap, non esiste un limite fisso per ogni anno, ma la spesa massima viene decisa di volta in volta, all’inizio di ogni stagione, in relazione agli introiti della Lega degli ultimi anni e una stima degli introiti della stagione stessa in partenza. 

Una volta stabilito tale tetto, viene comunicato alle franchigie anche il Salary Floor, che, al contrario del Cap, rappresenta quella soglia rispetto alla quale non si può scendere sotto l’elargizione complessiva degli stipendi e fa riferimento quasi per ogni stagione, a circa il 90% del Salary Cap.

La regola dice che nel caso in cui non venga raggiunta la soglia minima degli stipendi, la differenza verrà corrisposta equamente tra tutti i tesserati a fine stagione. 

Per gli spendaccioni, invece, la mannaia si chiama “Luxury Tax” e viene applicata nel momento in cui si sfora il limite del tetto salariale sotto forma di ulteriore esborso per ogni dollaro speso in eccesso, del quale vi risparmiamo gli scaglioni! 

I limiti di quest’anno

Il tetto salariale della stagione 2021/2022 che partirà il prossimo 19 ottobre, è stato fissato lo scorso 2 agosto in 112,4 milioni di dollari, mentre la soglia della Luxury Tax sarà di $136,4 milioni, le stesse cifre dell’anno precedente. 

Per ora si parla di grosse spese per Warriors, Nets e Clippers, ma la off-season è ancora lunga e vedremo solo più avanti nel tempo come si metteranno le cose.