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La leggenda di Robin Friday è inversamente proporzionale ai risultati da lui ottenuti nel corso della propria (breve, ma intensa) carriera di calciatore.

Nato nel 1952 ad Acton, quartieraccio di una Londra che, appena passata la Seconda Guerra Mondiale, inizia a gonfiarsi di palazzi ed abitanti, di inglesi e di stranieri, firma il suo primo cartellino a soli 12 anni col Crystal Palace.

Chiaramente, il ragazzo deve ancora farsi, e comunque prima dei 16 non si può esordire, ma intanto Friday stupisce i vari allenatori che lo seguono nelle giovanili e, insieme a questi, chiunque passi dalle parti di Selhurst Park per inciampare, anche solo fortuitamente, nella sublimità calcistica fatta maverick (cavallo pazzo).

Prodezze e miserie

L’inizio sembra promettente, per Friday. Il Palace è una società ricca e prestigiosa, che può offrirgli la possibilità di giocare a livelli alti, con un discreto stipendio e rimanendo all’interno della propria città di origine, non lontano da Acton, home sweet home. Ma il temperamento di Friday è incontrollabile, imprevedibile e, per usare un termine meno politically correct, criminale. A soli 16 anni cade già nel suo primo furto – o meglio, viene beccato con le mani nel sacco; chissà a quando risale la vera prima volta.

Uscito di prigione, sposa Maxine, una ragazza di colore – cosa che all’epoca fa scalpore – con cui durerà appena qualche mese (si sposerà altre due volte, Friday).

Dopo aver illuminato le fredde e sbilenche aste del carcere col suo calcio spumeggiante, radioso persino nel buio della cella, Friday passa al Walthamstow Avenue, squadra che milita tra i semiprofessionisti della Isthmian League.

Il suo contratto è una miseria da dieci sterline a settimana. Lavora come asfaltatore, autista di supermercato e lavavetri per arrotondare; sì, ma mica per campare.

La sera, quando può, ci dà dentro con l’alcool e le serpentine con cui delizia il pubblico in campo sembrano essere la coerente traduzione calcistica di quel mondo insieme maledetto e benedetto dei bevitori senza spirito. Meglio, senza avvenire.

Friday non beve perché depresso, né per noia. Alla maniera in cui Dumas descrive Athos ne I tre moschettieri, Friday scandisce la propria esistenza tra uno sguardo penetrante, una giocata da fuoriclasse e un colpo di dadi tirati al vento; numeri perduti, come quelli che esegue nel rettangolo verde (meglio, fangoso).

La sua carriera preferiamo descriverla con una delle frasi più belle di Louis-Ferdinand Céline: una scheggia di luce che finisce nella notte.

E infatti mentre la notte cala e i lupi ululano Friday, che ha soli 38 anni, muore di overdose da eroina. Viene trovato solo, con un laccio nell’avambraccio sinistro e un capello più lungo del solito, già lungo di suo. Finisce di giocare nel 1977, quando di anni ne ha 25. “Absolutely fabulous”, così lo descrive Leslie Hamilton, medico del Cardiff. Qui giocherà gli ultimi scampoli di carriera.

Cronache da un talento ingestibile

Poco prima milita nell’Hayes. Prima di un match, si scola tre bottiglie di scotch, entrando in campo completamente ubriaco. I difensori non lo marcano, anzi lo sbeffeggiano, ma lui, ricevuta palla dalla trequarti, calcia come viene bucando le mani del portiere avversario e lasciando tutti di sasso, persino lui: “Where am I?”.

Gioca così bene, all’Hayes, quando può (s’intende, quando non è ubriaco fradicio o high per qualche tiro di troppo con la cannabis), che una splendida prestazione in FA Cup gli vale l’ingaggio col Reading.

Qui Friday verrà ricordato in eterno. L’allenatore Charley Hurley proverà fino all’ultimo a metterlo sulla retta via, ma senza successo. Quando lascia il club per andare al Cardiff, i tifosi fanno una colletta (raccogliendo più di 3000 quote) per farlo tornare con loro.

Col Reading Friday gioca la sua miglior stagione (sia singolarmente che collettivamente, perché il Reading otterrà il pass per la seconda divisione). 21 reti per il genio maledetto di Acton, tra cui una perla di destro da fondo campo contro il Tranmere Rovers, commentata dall’arbitro della partita, il celebre ed esperto Clive Thomas: «Non riesco a credere come un calciatore simile non giochi in first division».

I premi promessi dalla società per l’ottenimento della second division non vengono rispettati e Friday questo non può accettarlo – non si tratta di soldi, ma di rispetto, appunto. Non che a Friday importasse troppo, va detto, di qualunque vincolo morale. Ma la parola data, specialmente se comporta una cospicua somma di denaro, va mantenuta. Sposa Liza Deimel e il matrimonio, praticamente, dura settimane, tra fiumi di birra e fumi di cannabis.

L’ultima prodezza di Friday, dopo aver fatto la pelle al Fulham di Bobby Moore con due reti realizzate, è datata 16 aprile 1977 nella sfida contro il Luton Town.

Dopo uno scontro di gioco, il portiere avversario Milija Aleksic – estremo difensore di origini jugoslave – si rifiuta di stringergli la mano. Ma all’azione successiva, Robin gliela fa pagare cara, mettendolo a sedere con una finta e bucandolo alle spalle, per poi salutare il tutto (portiere compreso) con un gesto di irrisione (che in inglese vuol dire “vaffa”, detto per inciso) rimasto nella storia – e immortalato nella copertina del singolo dei Super Furry Animals, The man don’t give a fuck.

Nessun titolo potrebbe descrivere meglio lo straordinario e maledetto talento di questo fuoriclasse inglese:

«La gente pensa che io sia matto, ma io sono solo un vincente».

Robin Friday