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Juan Roman Riquelme non è stato semplicemente uno straordinario calciatore, né uno dei migliori interpreti del suo ruolo, ma l’inventore di un genere, la più armoniosa forma della fantasia applicata al gioco del pallone, uno sul quale Gianni Brera avrebbe speso fiumi d’inchiostro.

Con la palla al piede, Riquelme, ha tramutato in atto una delle più belle e celebri frasi di Dimitar Berbatov, un altro eccellente direttore d’orchestra: «Treat the ball like you treat your women, be gentle with it».

2002-2006. Odissea nello spazio.

È l’estate del 2002 quando, per soli 9 milioni di euro, Juan Roman Riquelme passa dal Boca Juniors al Barcellona. Lui, che junior era stato fino a quel momento, aveva giocato per le due migliori squadre argentine che ne portano la sigla finale: il Boca, appunto, e l’Argentinos, la squadra che, tanto per dirne due, aveva dato i natali calcistici a Redondo e Diego Armando Maradona.

In Catalogna Roman, che di romano ha molto poco, ma di romantico moltissimo, ha fatto ciò che Dalì fece per la città: darle nuovo splendore, dotare una piazza già ricca di contenuti, particolarissimi e campanilistici, di una nuova formula magica: lo spettacolo puro, l’intuizione creatrice. Ma al Barça Roman non ha lasciato il segno. Difficile dire, comunque, cosa significhi lasciarlo per uno che da sempre, fin dai tempi dell’Argentinos, riusciva a spiazzare la platea con una finta, con un passaggio filtrante senza toccare la sfera, di un’illusione ottica che è certamente una traccia, ma che sfugge alla statistica.

Da qui la sua seconda esperienza spagnola al Villarreal, per una cifra superiore a quella spesa dal Barcellona, ma con gli interessi. Una delle più belle squadre mai viste in Liga, allenata dalla sapienza tattica e psicologica del maestro Pellegrini.

E in cui figuravano nomi importanti, da Cazorla a Marcos Senna, da Gonzalo Rodriguez a Diego Forlan. Una sinfonia speciale, a metà strada tra la Spagna e il Sudamerica, nella quale Roman chiaramente non poteva che dirigere l’orchestra. 2006, Odissea nello spazio. Nel senso che Riquelme lo spazio lo vede prima, ma la gloria gli sbarra le porte in faccia nella semifinale di ritorno di Champions League con l’Arsenal, quando dagli 11 metri si farà ipnotizzare da Lehmann, chiudendo così la sua avventura col Sottomarino Giallo.

2007.

Juan Roman ritorna a casa. Qui non è Riquelme, ma El Diez.

El ultimo Diez, ad essere puntigliosi. Il suo tunnel a Mario Yepes, nel maggio del 2000, nel Superclasico col River, è un gesto così incredibile che lo scultore Leonardo Rossi decide di immortalare in un’opera che è, per una volta, forse l’unica volta nella storia, un omaggio – imperfetto, quasi patetico – ad un’opera d’arte vivente, irripetibile, mai più replicabile.

Ricorderete l’azione: Riquelme si trova sulla linea laterale di destra. Aspetta Yepes che come una serpe si affaccia sul suo stinco, con l’intento di morderne l’arto. Ma Riquelme prima ne elude l’intervento con la suola destra, poi sempre con la suola (all’altezza della punta del piede) piroetta il pallone muovendosi leggiadramente sul terreno di gioco, invertendo il proprio movimento di centottanta gradi e ritrovandosi ancora col pallone tra i piedi. Yepes è già a due metri di distanza, stordito: la palla, magicamente, è passata sotto le sue gambe. Una giocata speciale, di quelle che rimangono impresse nelle retine.

10. Perché Riquelme è l’ultimo vero Diez

Juan Roman Riquelme è El Diez. El ultimo Diez. Sarebbe inutile citare il suo palmares, ma le parole questo possono fare: testimoniare la grandezza.

La sua eleganza, la sua andatura lenta e il suo pensiero veloce, sono stati eccellentemente descritti e immortalati dalla penna di Jorge Valdano:

“Chiunque, dovendo andare da un punto A ad un punto B, sceglierebbe un’autostrada a quattro corsie impiegando due ore. Chiunque tranne Riquelme, che ce ne metterebbe sei utilizzando una tortuosa strada panoramica, ma riempiendovi gli occhi di paesaggi meravigliosi”.

Jorge Valdano

Paesaggi e passaggi. Perché Riquelme non è stato solo dribbling e fantasia. Non è stato solo estro e calci da fermo di un’eleganza inarrivabile.

È stato il miglior interprete di un ruolo indefinibile per essenza: il trequartista, l’animale calcistico che vaga – horror vacui – sulla trequarti campo in attesa di un movimento, di un pertugio, che trova da sé se la situazione lo necessita – quasi sempre, poiché i compagni ripongono in lui la fiducia che il branco ripone sul lupo.

E che sa calibrare il passaggio giusto al momento giusto. Riquelme faceva tutto questo con una facilità che metteva timore. Ma infondeva negli avversari rispetto, prima di tutto.

“Il calcio mi ha dato tutto. Proprio come una bambina ama le sue bambole, il miglior giocattolo che ho mai avuto è stato il pallone. La persona che lo ha inventato è un vero eroe: nessuno lo può superare”.

Juan Roman Riquelme

Quattro volte miglior giocatore d’Argentina (2000, 2001 e 2008, 2011, al suo ritorno in terra madre), tre volte vincitore della Copa Libertadores (99/00, 00/01, 06/07), Campione del mondo U20 con l’Albiceleste nel 97, vincitore della Coppa Intercontinentale col suo Boca nel 2000, una volta vincitore della Recopa nel 2008, cinque volte campione d’Argentina, sempre col Boca (98, 99, 2000, 2008, 2011), medaglia d’oro, infine, alle Olimpiadi di Pechino nel 2008.

I numeri non possono dire tutto, ma dicono già molto. Riquelme li rifiuterebbe, perché egli è sempre rimasto Juan Roman, il ragazzino innamorato del pallone, che lo ha amato a sua volta con la stessa infinita passione.