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Non ci sono dubbi sul fatto che nella pallacanestro professionistica americana, si sia affrontato negli ultimi due decenni un percorso di inasprimento delle pene piuttosto stringenti quando ci riferiamo ai comportamenti che esulano dalla mera regolamentazione di risse, scazzottate, colpi proibiti e simili.

Tutto concesso o quasi

Proprio “The Last Dance”, il docufilm che mette in evidenza su Netflix le gesta del Bulls di Michael Jordan, ha messo sul piatto della visibilità tutta una serie di comportamenti sul parquet che al giorno d’oggi non verrebbero giudicati allo stesso modo dai fischietti americani. 

L’accusa di chi ha perso una parte della passione che aveva un tempo verso la NBA, è originata proprio da queste dinamiche in continua evoluzione. 

Sono da una parte sacrosante le ragioni di chi governa una macchina organizzativa oliata in modo perfetto, alle prese con una stagione sempre più ricca di quella precedente, una valanga di soldi e di spettacolo adattato alle televisioni che non sbaglia un colpo. 

Eppure qualcosa manca, non è in dubbio nemmeno questo. 

Quei cattivi ragazzi 

A parte gli attacchi all’arma bianca conditi dai vari “non si difende come un tempo”, “non fischiano mai passi”, “la regular season è una pagliacciata” ecc ecc, che possono essere letti in maniera diversa a seconda delle angolazioni dalle quali partono, non si può negare che qualche scaramuccia tra i giganti della pallacanestro manchi e non poco. 

Non fraintenda il lettore, ci sono stati episodi nella pallacanestro anni ’70 e ’80 che definire vergognosi sarebbe un eufemismo bello e buono, chi ha vissuto quei momenti ricorda più di una situazione fuori dalle righe. 

È altresì vero che quel tipo di competitività accompagnava i gesti tecnici degli attori in campo come una sorta di completamento dello spettacolo, l’idea di un vero e proprio attaccamento alla propria maglia, ai propri compagni, al proprio spogliatoio, succeda quel che succeda. 

L’unico modo per batterli?

Furono più di un paio le squadre che all’epoca del doppio three-peat dei Chicago Bulls, riuscirono a mettere in difficoltà il 23 & Co. 

Lakers prima, Indiana e New York poi, Utah al tramonto, riuscirono a mettere in difficoltà i 6 volte campioni NBA e tutte queste squadre fecero capo ad un denominatore comune: aggressività e agonismo. 

Lakers e Utah riuscirono a imbrigliare a tratti i loro maestosi avversari facendo appello ad un gioco spregiudicato, ma sempre e comunque all’interno di uno steccato regolamentare raramente fuori spartito.

Indiana, con a capo Reggie Miller, provarono a innervosire sua maestà MJ con tutta una serie di accorgimenti un pochino al di sopra della mera tecnica sportiva. 

Pat Ewing e compagni la misero un po’ più sul fisico, sfidando i campioni di Chicago in maniera più intraprendente, senza badare a qualche colpo proibito da sferrare nel momento opportuno. 

Detroit sporchi e cattivi

Questo modo di affrontare i Bulls cominciò a diventare una sorta di copione studiato e ripassato da più di una squadra, fino a quando non arrivarono coloro i quali ne fecero una sorta di mantra, prendendolo probabilmente un po’ troppo alla lettera, i Detroit Pistons. 

Spostando di parecchio le lancette dell’orologio indietro nel tempo, il primo personaggio che decise di portare i Pistons nel cuore di Detroit, fu Bill Davidson, padre padrone della franchigia fino all’alba del nuovo millennio. 

Il ricchissimo proprietario dei Pistons trasferì a Pontiac l’intero cuore pulsante della propria creatura pochi anni dopo il suo arrivo datato 1974, affascinato dall’idea di giocare nel lussuoso, per allora, Silverdorme, uno dei primissimi stadi chiusi costruiti con il tetto in teflon. 

Gli acquisti principali della parte iniziale dell’era Davidson furono Isiah Thomas, Vinnie Johnson e il centrone Bill Laimbeer, ma i risultati non furono quelli sperati fino all’arrivo di Chuck Daly

I tifosi a Detroit non ci misero molto a mugugnare per l’arrivo del già esperto coach della Pennsylvania, vista la pressoché fallimentare stagione appena conclusa ai Cleveland Cavaliers

L’era Daly 

L’epopea dell’allenatore a Detroit cominciò nel 1983 per chiudersi dopo 10 anni nel 1992. 

La parte iniziale del suo percorso non fu tra le più esaltanti, ma la proprietà ebbe il grande merito di dare tempo al suo staff tecnico e piano piano il buon Chuck cominciò a dare una certa regolarità di risultati alla squadra. 

Dopo le prime esitazioni, la stagione dell’esordio di Daly in panca si chiuse con un incoraggiante record di 49 vittorie e 33 sconfitte. 

Le apparizioni ai playoff divennero costanti e gli innesti furono quasi sempre di ottima fattura, grazie e soprattutto all’arrivo dei rookie Joe Dumars, Dennis Rodman e John Salley. 

I successi arrivano con la cattiveria

Se vogliamo limitarci a quella agonistica, la cattiveria dimostrata in quegli anni dai ragazzi di Daly fu uno degli argomenti più dibattuti dagli osservatori dell’epoca. 

La squadra giocava con una intensità difensiva che metteva spesso in difficoltà gli arbitri alle prese con decisioni sempre più complicate che scatenavano le ire dei Pistons stessi e dei loro avversari. 

Ogni partita era una polveriera e lo spirito di una squadra operaia e piena di orgoglio, sostenuta dagli operai delle industrie automobilistiche di Pontiac, veniva supportato da un’intera città affamata di successo. 

Questo tipo di basket non pulitissimo e sempre al limite del regolamento, portò tutta una serie di record di vittorie in regular season, ma la vera prima soddisfazione arrivò nel 1987 quando i Pistons giunsero alla finale della Eastern Conference perdendo per 4-3 contro i Boston Celtics di Larry Bird

La rivincita contro Larry Bird e l’ennesima delusione

La stagione successiva la finale fu la medesima di quella precedente e la squadra di Daly questa volta riuscì a “combinarla” reale eliminando i verdi per 4-2.

La finale per la conquista dell’anello fu una delle più incredibili della storia della NBA. 

Il campo amico non fu esattamente un fattore, e le due squadre si presentarono alla partita decisiva sul 3-3, dopo che i Pistons sprecarono il primo match point sul 3-2. 

Le ultime due sconfitte arrivarono in casa e la delusione fu cocente.

Le Jordan Rules 

La fame dei Pistons era arrivata a una specie di punto di non ritorno e Chuck Daly, nella stagione immediatamente successiva, dopo l’ennesimo tiro sulla sirena del 23 che portò i Bulls sul 2-1, impose su Micheal Jordan una difesa asfissiante, con tutta una serie di accorgimenti tattici che ancora oggi viene ricordata come “Jordan Rules”. 

Le regole prevedevano un continuo raddoppio sul fenomeno di Chicago, al centro verso sinistra, dai lati verso il centro, doveva essere una doppia marcatura asfissiante, cattiva. 

La cosa riusciva anche in post basso, una delle posizioni preferite da Jordan, il quale veniva sempre e comunque affrontato da Laimbeer che in più di un’occasione lo tramortiva con tremende mazzate ogni qual volta decideva di mettersi in proprio nei pressi dello smile. 

La tattica funzionò, i Pistons ribaltarono la serie e si imposero per 4-2 guadagnandosi un nuovo appuntamento con la storia, ancora una volta coi Lakers

Lo sweep in finale 

La super prestazione difensiva dei bad boys contro Jordan non si poteva fermare per l’ennesima volta a pochi passi dal titolo e questa volta fu un trionfo. 

Los Angeles venne annichilita dalle alchimie tattiche del coach avversario e dalla spasmodica aggressività dei suoi ragazzi, tanto che per i giallo viola non ci fu scampo né speranza: 4-0 e tutti a casa. 

Joe Dumars si sprese la corona di MVP delle Finals e i ragazzi cattivi di Daly si ripeterono l’anno successivo battendo in finale Portland

La dinastia Pistons viene ancora oggi presa ad esempio come uno dei capitoli più importanti della storia del basket americano e insegna, per l’ennesima volta, che con il lavoro, il sacrificio e idee difensive rivoluzionarie, si può arrivare a conquistare i propri obiettivi. 

Anche quelli che sembrano irraggiungibili.