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Le partite di calcio si devono vincere segnando almeno un gol in più dell’altra squadra. Ma è vero anche per l’avversario, per cui molto spesso si dice che i campionati si vincevano soprattutto con le difese. Certo oggi viviamo in un epoca di tatticismi esasperati, ma tutto ha avuto un’origine e una evoluzione. E ognuno di questi sviluppi ha segnato in qualche modo pagine della storia del calcio. Come nel caso del “Catenaccio“, etichetta di strategia quanto mai vicina ai colori azzurri e a molti successi di club nostrani.

Le origini del catenaccio

Malgrado l’Italia sia stata, a ragion veduta, la patria del catenaccio (tanto che per molti è sinonimo proprio di un “calcio all’italiana”), l’origine vera e propria di questo modello strategico, arriva da appena oltre il confine, quando l’allenatore Karl Rappan portò al successo prima il Servette e poi il Grasshoppers nel campionato svizzero. Con la stessa nazionale elvetica, squadra non certo di primissimo piano all’epoca, centrò anche i quarti di finale nel mondiale del 1938 togliendosi lo sfizio di eliminare la Germania nazista.

I motivi di queste vittorie erano proprio un adattamento tattico che per primo voleva prediligere l’aspetto più difensivo, arretrando i mediani sulla linea arretrata e di conseguenza imponendo a due attaccanti interni di coprire di più a centrocampo. Insomma tutto il baricentro della squadra si era così spostato indietro di parecchi metri, cercando più che altro di agire in ripartenza e contropiede. Questa tattica prese il nome di “Verrou“, il chiavistello, e proprio perchè risultata particolarmente efficace (specie da formazioni non propriamente piene di grandi talenti), portò a varie evoluzioni e varianti.

Il catenaccio all’italiana

Il vero “catenaccio” però, in Italia arriva come evoluzione abbastanza a sè stante, tramite l’intuizione di Ottavio Barbieri (secondo Brera fu lui il primo in assoluto) e soprattutto di Giuseppe Viani che almeno in forma più continuativa, presentò per primo il “libero” nella sua Salernitana del primo dopoguerra.

Un’innovazione, quella di avere un giocatore senza compiti precisi di marcatura dietro la linea di difesa (il “libero” appunto), che diede subito buoni risultati, tanto che sempre in quegli anni, anche alcune altre formazioni cominciarono a seguirne l’esempio. A cominciare dalla Triestina di Nereo Rocco, formazione tutt’altro che di prestigio visto che era terminata ultima nella stagione ’47, salvata solo da un ripescaggio. L’anno successivo però, con Rocco al timone e questo nuovo modulo, riesce nell’impresa di arrivare seconda in Serie A dietro soltanto a quel Grande Torino.

Una strategia per squadre con poca qualità

Il “catenaccio” comincia quindi a prendere sempre più piede in Italia, e come detto sono quelle squadre non particolarmente ricche di talento a trarne il maggior profitto. Potendo contare su una tattica che privilegia di fatto un gioco molto basico (non far giocare gli avversari e agire di rimessa) e soprattutto il sacrificio di molti giocatori (dai centrocampisti che devono fare molta copertura alle ali che devono tornare spesso indietro, fino agli attaccanti).

Lo stesso Nereo Rocco, non a caso, ripeté l’impresa con un Padova non certo di livello, che portò comunque fino alla terza piazza del massimo campionato (e stabilmente tra i primi in quegli anni). Ma c’è bisogno ancora di qualche piccolo aggiustamento tattico e di un po’ di pazienza, per vedere l’esaltazione massima di questa tattica di gioco.

Gli anni sessanta: le grandi vittorie del Catenaccio di Nereo Rocco

Il trionfo del “catenaccio“, arriva però durante gli anni sessanta, con le continue vittorie in Italia e in Europa dei due massimi esponenti di quel gioco: Nereo Rocco ed Helenio Herrera.

Al Milan Nereo Rocco, deve risistemare la squadra secondo il suo credo, e attaccanti di grande prestigio ma poco avvezzi al sacrificio in campo non fanno per lui. Ne fa così le spese Jimmy Graves, che torna quasi subito in patria per far posto invece a un pupillo di Rocco, Dino Sani. E’ lui il perno del centrocampo che riuscirà a far quadrare il gioco del Milan, nonchè a dare più libertà di azione al giovane Gianni Rivera.

E quando anche loro (tecnici ma forse più lenti) non dovessero farcela, ecco che veniva fuori la qualità del “libero” Cesare Maldini, altra garanzia di sicurezza. E infatti arriva lo scudetto e l’anno successivo, anche la prima storica vittoria italiana nella Coppa dei Campioni. Rocco poi lascerà il Milan per tornare a vincere ancora qualche anno più tardi, ma il testimone del catenaccio passerà nel mentre ai cugini dell’Inter.

Il Catenaccio di Herrera

Qua siamo di fronte forse all’ultimo tassello evolutivo della strategia del catenaccio, merito anche non solo del genio di Herrera ma anche dalla classe di alcuni suoi elementi che resero perfetta l’alchimia.

A Herrera va dato atto di aver compreso come fosse fondamentale una preparazione atletica e psicologica perfetta per sostenere quella modalità di gioco, e di aver disegnato la sua Grande Inter adattando al meglio tutto il talento in campo.

L’attacco è qua affidato a un solo centrale che funge da “Boa“, coadiuvato però dai continui inserimenti della linea di centrocampo, come gli esterni Jair e Corso, oltre che degli stessi registi come Mazzola e Luis Suarez (da cui potevano partire in ogni momento palloni utili per uno dei rifinitori). A questo va aggiunto un Facchetti che è stato maestro per dare piena vita al ruolo di terzino fluidificante che ha fatto le fortune di questo modulo alla Herrera.

La fine (forse) del catenaccio

Le ultime grandi vittorie di Rocco con il Milan, lo mettono di fronte proprio al futuro della tattica: l’Ajax di Cruijff. Siamo alla nascita del “calcio totale” e votato all’attacco, dove tutti difendono e poi tutti attaccano, lasciando gli avversari senza riferimenti. Difficile contrastare questo tipo di gioco con le solite marcature a uomo questa volta (anche se poi le esperienze della Juve di Trapattoni e dell’Italia di Bearzot mostreranno l’abilità di adattarsi del calcio italiano).

Resta però che il “catenaccio” ormai è entrato nel gergo comune, e anche senza veri e propri riferimenti tattici, si intende come riferimento alle squadre che tendono a tenere basso il baricentro e agire in contropiede. Ma è comunque un’altra storia, un gioco in ogni caso più moderno e organizzato senza molto in comune con il catenaccio di allora. Un tattica che, comunque, è stata in qualche modo innovativa a quei tempi e ha portato tutta una serie di sviluppi e contro misure altrimenti impossibili.

Insomma il catenaccio è morto (forse). Lunga vita al catenaccio.