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Quando si parla di Phil Ivey lo si fa pensando ad uno dei più grandi giocatori di poker di ogni tempo. Un giocatore che ha vinto 10 braccialetti alle WSOP, un titolo WPT, è Hall of Famer e vanta 30 milioni di dollari incassati soltanto nei tornei live. Ma soprattutto Ivey è un campione che ha scritto pagine innovative del poker americano, grazie a bluff vertiginosi, letture da raggi X e uno stile di gioco assolutamente personale.

Ma da circa quattro anni, purtroppo, il suo nome evoca anche quello di una “truffa” ai danni di alcuni casinò inglesi e americani e delle conseguenti azioni legali. Il virgolettato è necessario, perché la definizione di truffa o, per essere più precisi, di disonestà è ciò su cui si sono sfidate accusa e difesa nei vari tribunali e che oggi hanno trasformato quel caso in un precedente legale.

Ma andiamo con ordine. La vicenda è abbastanza nota, ma la riassumiamo in breve qui (oltre ad averne parlato in un precedente articolo). Tra il 2012 e il 2016, Phil Ivey e la gambler cinese Cheung Yin “Kelly” Sun, sbancano i tavoli di baccarat dei casinò casinò britannici Genting Crockford (UK) e del Borgata di Atlantic City (USA). Si parla di vincite davvero ingenti, alcune decine di milioni tra sterline e dollari, e soprattutto al di sopra della media poiché anche nel baccarat, come in tutti i giochi da casinò, la casa ha un vantaggio sui giocatori. Insomma, una serie di successi che destano inevitabilmente dei sospetti. La spiegazione arriva per bocca degli stessi giocatori, messi alle strette dai casinò: i due riescono ad individuare una irregolarità nel disegno sul dorso delle carte che consente loro di distinguere i punti alti da quelli bassi. Una tecnica cosiddetta di “edge sorting” e ritenuta illecita dalle case da gioco.

Al rifiuto del Crockford di pagare i 7,7 milioni di sterline persi, Ivey e la Sun ricorrono in giudizio. Di fronte al giudice, l’insolito duo non nega di aver usato lo stratagemma che però viene definito da Ivey come una “strategia legittima” in grado di sfruttare “l’incapacità del Crockford di adottare misure adeguate per proteggersi contro giocatori della mia abilità”.

Il giudice è però di parere contrario e sancisce che le azioni di Ivey rappresentano “un imbroglio dal punto di vista del diritto civile”. Caso chiuso? Decisamente no, perché i due gambler decidono di proseguire in appello davanti alla Corte Suprema di Londra. E qui sta il punto, perché è in questo contesto che viene ridefinito il concetto di disonestà per la legge del Regno Unito, facendo del caso “Ivey vs Genting Casinos” un punto di riferimento in ambito giudiziale.

La sentenza emessa dal giudice della Corte Suprema, Lord Hughes, è nuovamente contraria a Ivey-Sun e soprattutto sposta la valutazione di un atto disonesto dall’ambito “soggettivo”, ovvero da ciò che il soggetto coinvolto ritiene essere l’idea comune di disonestà, a quello più “oggettivo” rappresentato da ciò che una corte, giudice o tribunale stabilisce come tale.

La sentenza suscita immediatamente reazioni contrastanti. Alcuni esponenti del mondo del gambling reagiscono in maniera molto negativa, definendola – è il caso dello scrittore, regista e produttore Richard Munchkin – “un’assoluta parodia della giustizia”. Comunque sia, la sentenza della Corte Suprema britannica mette la parola fine alle richieste di Ivey ma non alla circolazione del suo nome in ambito legale.

Subito dopo la sentenza conclusiva, per molti esperti il caso “Ivey v. Genting” è destinato a diventare un precedente molto importante a causa di questa nuova definizione di disonestà. E hanno ragione.

Non molto tempo dopo, un ex proprietario di una casa di cura per anziani situata nel Nord-Ovest dell’Inghilterra, viene condannato per frode, dopo aver derubato gli ospiti per oltre 4 milioni di sterline. Il giudice incaricato di decidere sul suo caso lo definisce “un fallito dal punto di vista morale” nonché “spregevolmente avido”. Gli avvocati del proprietario della casa di cura fanno subito appello, affermando che il giudice del processo avrebbe applicato erroneamente la definizione di disonestà applicata da Lord Hughes nella sentenza Ivey. Secondo loro, una sentenza civile non si può applicare in un procedimento penale. Anche in questo caso, come in quello del professionista di poker, l’appello viene respinto dal secondo giudice, il quale replica con chiarezza che la sentenza Ivey è stata applicata correttamente.

Non c’è dubbio che per il Phil Ivey, dopo la vicenda legale contro i casinò, alla fama internazionale nel mondo del poker si sia aggiunta quella nelle aule dei tribunali inglesi. Il dubbio rimane sul fatto che il Tiger Woods delle carte possa andarne fiero.

 

Fonte di riferimento: Why Phil Ivey is back in court — and why he’ll be there again and again di Howard Swains, per PokerStarsblog.com

 

 

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