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Compie oggi 47 anni il Burrito, una storia tutta argentina del fu erede di Maradona, caduto in disgrazia dopo una vita sulle montagne russe.

Ariel Arnaldo Ortega è uno di quei calciatori di cui è facile innamorarsi. Il suo calcio è quello che si ama da bambini, fatto di numeri, tunnel, tocchi vellutati, un piacere ancestrale a volte anche inutile, ma che fa aprire la bocca in un’espressione di meraviglia. I capelli lunghi, il numero 10 sulle spalle, c’è stato davvero un momento della storia del calcio in cui il ragazzo di Ledesma sembrava potesse seriamente prendere l’eredità del Diez, del più grande di sempre. Ma così non è stato, d’altronde di Maradona, non può che esisterne uno. Ortega, nato il 4 marzo del 1974 a Ledesma, nel nord dell’Argentina al confine con la Bolivia, cresce come tutti gli altri ragazzini, giocando in strada su terreni sconnessi e rocciosi, affinando quindi l’arte del dribbling, del nascondere la palla all’avversario e mandarlo fuori strada. Anche qui abbiamo un soprannome affascinante, una particolarità tipica del Sudamerica, il Burrito, l’asinello, per quella sua andatura un po’ gobba, come quella di un asino. Passarella lo scopre e lo porta al River Plate di Buenos Aires, una strada opposta a quella di Diego, ma un inizio di carriera sfavillante con i Millionarios. Quattro volte campione argentino, la Copa Libertadores del ’96, il Mondiale americano ad appena vent’anni, la medaglia d’argento olimpica ad Atlanta, con la Seleccion seconda dietro alla futura generazioni di fenomeni nigeriana. Come sempre arriva il momento del salto in Europa, ad assicurarsi le sue prestazioni è il Valencia, nella Liga spagnola. Vive una stagione e mezzo discontinua, anche perché sulla panchina valenciana siede un certo Claudio Ranieri, un uomo di pragmatismo e tattica. Ma arrivano i Mondiali di Francia, e il Burrito torna a incantare con 3 assist e 2 gol, nella sfida con la Giamaica, seguita dalla vittoria sugli odiati inglesi e la sensazione che quell’uomo col dieci sulle spalle potrà portare l’Argentina a giocarsi la vittoria finale. Non andò così: a tre minuti dal termine della sfida con l’Olanda, nei quarti di finale, Ortega rifila una testata al portiere Van der Sar, venendo ovviamente espulso. Due minuti dopo, il gol decisivo, una magia di Bergkamp che porta avanti gli arancioni e manda a casa l’Albiceleste.

Poco più di tre settimane dopo la cocente delusione, lo sbarco in Italia. La Sampdoria del Presidente Mantovani aveva accumulato un bel gruzzolo dalle cessioni di Mihajlovic, Boghossian, Veron e Signori, e decise di investirli sul Burrito, giunto a Genova per 23 miliardi di lire, stipendiato a 2,5 l’anno. Cifre importantissime, che alla fine a poco servirono, dato che la Samp retrocesse clamorosamente in Serie B, a pochi anni dall’ultimo Scudetto. La lunga assenza di Montella peserà sul destino dei liguri, mentre Ortega mostrerà una certa discontinuità. Impossibile comunque non ricordare alcuni suoi gol magnifici: la serpentina con l’Empoli, le due punizioni dirette contro Juve e Milan, il superbo pallonetto d’esterno con cui supera Pagliuca in uno storico 4-0 all’Inter. Nelle giornate sì, il numero dieci dà spettacolo. Il problema è che iniziano a essere di più le giornate no, come si accorgerà presto il Parma, 28 miliardi di lire per il suo acquisto nel 1999. La sua annata con i ducali è ancora più anonima, un flop, tant’è che dopo un anno torna nella sua Argentina. Giocherà anche i Mondiali 2002, i peggiori della storia della Seleccion, prima del buio. L’alcool inizierà a entrare nella sua vita, dando l’illusione di lenire le sue ferite interne. Tocca il fondo nel 2003, quando, dopo aver accettato la corte del Fenerbahce, deciderà bellamente di imbarcarsi per Buenos Aires e non tornare più in Turchia, una terra e una cultura troppo distante da quella del Burrito. Multato per più di 10 milioni di dollari dalla Fifa e squalificato per un anno, riuscirà a patteggiare e a tornare in campo, con la maglia del suo amato River Plate, l’unico club in cui si è trovato a casa. La sua carriera da calciatore termina nel 2012, con la maglia del Belgrano. Non è stato Maradona, ma un posto nel cuore degli appassionati di calcio, Ariel Ortega, l’asinello, lo ha certamente ritagliato.

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