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Per trovare un indirizzo in città o visualizzare una località per una vacanza, oggi c’è un sistema semplice ed efficace: Google Earth.

Tutti lo conoscono e lo usano, anche perché è free. Gratuito solo per gli utenti, sia chiaro, perché Google guadagna miliardi di dollari ogni anno grazie agli inserzionisti che pagano per essere visualizzati più spesso nelle ricerche dei consumatori.

Ma questa non è una sorpresa, perché fa parte del normale business di Google. Quello che invece non tutti sanno è che Google Earth è in sostanza una copia di un programma sviluppato quasi 20 anni prima. Il suo nome è TerraVision.

A raccontare questa interessante storia è la miniserie in 4 episodi prodotta da Netflix e uscita il 7 ottobre scorso, dal titolo Il codice da un miliardo di dollari (in originale The Billion Dollar Code). Questa è infatti la cifra che gli originali sviluppatori di TerraVision hanno chiesto al colosso americano per il danno subito.

La storia inizia a Berlino, nell’immediato post-muro. La città sperimenta un momento di grande vivacità, quasi anarchica, durante il quale l’iniziativa imprenditoriale e quella artistica decollano. Questi due elementi si fondono in ART+COM, la piccola azienda (una start-up diremmo oggi) fondata nel 1988 da Carsten Schluter e Jury Muller, i due protagonisti della miniserie.

I giovani Carsten Schluter (Leonard Scheicher) e Jury Muller (Marius Ahrendt)

Nel 1994, ART+COM sviluppa un software (un codice) che combina immagini satellitari e coordinate geografiche della Terra, rendendone possibile per la prima volta la versione tridimensionale. Attraverso una specie di joystick, l’utente può ispezionare località lontanissime, sconosciute, avvicinandosi molto alla visione offerta oggi da Google Earth.

Il problema è che Internet, inteso come World Wide Web (www), è appena nato e ancora poco diffuso. Nessuno è interessato a TerraVision, perché nessuno ne capisce ancora le potenzialità.

Ma negli States c’è la Silicon Valley, molto più ricettiva. Nel 1995 il tedesco Schluter (che è l’anima artistica ed imprenditoriale) e l’ungherese Muller (il genio informatico) entrano in contatto con un team di persone che in futuro faranno parte di Google. Tra queste ci sono Michael Jones e Brian McClendon i quali promettono accordi e collaborazione. Ma le cose non vanno per il verso giusto.

E’ il turning point della storia, perché dieci anni dopo il duo di ART+COM scoprirà che Google ha realizzato la sua versione di TerraVision, cioè Google Earth, usando le informazioni ricevute. Con Internet a pieno regime e un colosso aziendale come competitor, per il prodotto tedesco è game over.

Schluter e Muller decidono a questo punto di intentare una causa miliardaria contro Google, in una sfida legale ad armi totalmente impari.

Gli stessi protagonisti (interpretati da Mark Waschke e Mišel Matičević) in versione adulta davanti al tribunale americano.

Non vogliamo spoilerare oltre la miniserie che di fatto racconta una storia quasi del tutto vera. La stessa ART+COM, pur plaudendo all’operazione che ridà il giusto merito a TerraVision, la definisce “non un documentario, ma un lungometraggio in cui i personaggi reali sono basati su persone reali“.

Il nostro parere su Il codice da un miliardo di dollari è che si tratti di una miniserie originale e avvincente. Alla base c’è una storia importante, perché racconta il ventennio in cui la tecnologia legata a Internet ha cambiato il nostro modo di vivere.

La briosa regia di Robert Thalheim, in particolare, è abile nel raccontare la Berlino di quel periodo, piena di possibilità e di voglia di guardare al futuro.

Meno convincente ci è sembrata la sceneggiatura scritta da Oliver Ziegenbalg. Un po’ nei dialoghi, non sempre aiutati dalla recitazione degli attori, ma ancora di più nella narrazione della parte finale. La conclusione della disputa legale alla corte del Delaware (USA) è forse la parte più debole. Manca l’energia dei legal movie americani e anche gli elementi portati di fronte alla giuria lasciano un po’ perplessi.

Forse le cose sono andate davvero così e tutto è stato risolto da un discorso finale infarcito di retorica. Oppure qualcosa nel racconto è stato necessariamente omesso per questioni di riservatezza. Una possibilità che sembra trasparire da alcune dichiarazioni di chi ha vissuto realmente quella vicenda.

Queste sono contenute in un breve documentario (Making The Billion Dollar Club) che Netflix ha fatto uscire dopo la miniserie. Qui compaiono: Joachim Sauter, concept e art director (deceduto pochi mesi fa); Pavel Mayer, reality engineer; Axel Schmidt, 3D render; Gerd Grüneis, project manager; e Martin Sibernagl, esperto di software e successivo mediatore per le controversie tra l’agenzia e Google.

Il nostro consiglio è di vedere sia la serie che il documentario, per avere un quadro più completo della vicenda. Nel frattempo, ecco il trailer sottotitolato:

Foto di testa by Getty Images