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Parlare di professionismo negli eSports non è più una novità, anche se si tratta di giovanissimi campioni del joypad o della tastiera. Così come non c’è da stupirsi quando le cifre annuali degli ingaggi arrivano a parecchi zeri. La cosa strana, invece, è che se ne parli apertamente in un settore ancora molto deregolamentato, come quello dei videogiochi competitivi.

In questo senso ha fatto scalpore la notizia diffusa qualche giorno fa da Cloud9, uno dei primi 10 team esportivi al mondo, che ha rivelato il valore del contratto stipulato con Alex “ALEX” McMeekin: per i prossimi tre anni, il giovane fenomeno di CS:GO riceverà ben 1.650.000 dollari, tutto compreso.

Forse si è trattato di un’operazione promozionale per arrivare a nuovi potenziali investitori (Cloud9 non è quotata in borsa, per ora almeno) o magari di puro marketing. O ancora, potrebbe essere una semplice esigenza di trasparenza che, un po’ alla volta, sta emergendo tra i vari soggetti che operano negli eSports.

In questa direzione si colloca la decisione che sembra aver preso LPL, la lega professionista cinese di League of Legends. Secondo quanto riportato da Hupu, uno di più importanti siti cinesi d’informazione sportiva, LPL avrebbe intenzione di introdurre un sistema di controllo degli stipendi dei giocatori, improntato ai risultati ottenuti nelle partite.

Il condizionale è d’obbligo, anche perché la sola notizia ha scatenato un vespaio tra i tantissimi giocatori cinesi e non che militano nelle formazioni che partecipano alla LPL. La ragione è semplice: un criterio che si basa soltanto sul raggiungimento di determinati punteggi non tiene conto di alcuni elementi di equità. Per come è strutturato oggi il competitivo di LoL, infatti, i giocatori di una squadra ricoprono ruoli diversi. O a volte sono costretti ad utilizzare un campione chiaramente svantaggiato nella fase di corsia contro l’avversario, ma tuttavia determinante per la vittoria finale della squadra. Un po’ come se nel calcio lo stipendio fosse calcolato solo sui gol fatti, penalizzando così tutti le posizioni diverse rispetto a quelle degli attaccanti.

Senza contare che un sistema così concepito potrebbe incidere sulla qualità delle partite stesse, come ha evidenziato Parkes Ousley su InvenGlobal: “Ad esempio un giocatore potrebbe essere meno propenso a tentare giocate rischiose. Così come, nel momento in cui un team si rende conto che si avvia verso la sconfitta, sarebbe nel loro interesse permettere agli avversari di vincere in fretta e agilmente in modo da non rovinare le proprie statistiche”.

Osservazioni assolutamente legittime anche se lo spirito dell’iniziativa è chiaramente di altra natura. Da un lato, come dicevamo, c’è un bisogno di trasparenza negli ingaggi. Dall’altro, l’idea di LPL rappresenta la volontà di controllare la spesa stessa dei club, limitando la sperequazione tra le organizzazioni più ricche e quello che hanno meno possibilità economiche. Un equivalente del fair play introdotto dall’UEFA nel calcio, per rendere un po’ più bilanciate le competizioni internazionali. La LPL avrebbe infatti previsto sanzioni economiche per i team che spendono troppo in ingaggi.

Un intento condivisibile, crediamo, visto che anche per le “stelle” di League of Legends si parla ormai di contratti milionari. Un esempio su tutti: il toplaner Huni ha di recente siglato un contratto con i Dignitas che militano nella LCS (la lega nordamericana) da 1,1 milioni di dollari per due anni.

Di fronte a queste cifre, la LPL propone un correttivo, cioè un tetto salariale, prima che la situazione sfugga di mano, anche in considerazione della giovane età dei player. Rimane però discutibile la valutazione degli stipendi calcolata esclusivamente sulle prestazioni in-game, una scelta che rischia di creare “classi” di giocatori diverse all’interno dello stesso team.

 

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