Fausto Coppi, basta la parola: il più grande ciclista italiano di tutti i tempi, con il dovuto rispetto verso i vari Binda, Girardengo, Guerra, Bartali, Magni, Adorni, Nencini, Gimondi, Pantani e Nibali.
Unico atleta ad avere un paese intero, quello dove nacque, ribattezzato con il suo nome: Castellania Coppi. Roba di solito riservata a grandi artisti o Premi Nobel.
Primo corridore a centrare l’accoppiata Giro – Tour, pioniere in tantissimi aspetti della preparazione atletica alle gare, discusso e discutibile per certi suoi atteggiamenti fuori dalle corse (acqua fresca comunque rispetto ad altre situazioni), una morte prematura e tragica ad alimentarne il mito: insomma, un personaggio unico e straordinario.
Fausto Coppi, “Un uomo solo al comando”
“Un uomo solo al comando, la sua maglia è bianco-celeste, il suo nome è Fausto Coppi”.
Oppure: “La vittoria si pose al fianco di Coppi fino dal primo istante del duello. In chi lo vide non ci fu più dubbio. Il suo passo su quelle salite maledette aveva una potenza irresistibile. Chi lo avrebbe fermato?”.
Mario Ferretti fu il primo a coniare quella frase su Fausto Coppi, lui radiocronista inviato sul campo; la seconda frase, il secondo intervento, fu invece di Dino Buzzati, grande scrittore e giornalista del “Corriere della Sera”.
Tutta l’epicità del ciclismo racchiusa in un solo giorno: 10 giugno 1949, al Giro d’Italia in programma c’è la tappa che va da Cuneo a Pinerolo, 254 chilometri con Maddalena, Vars, Izoard, Monginevro e Sestriere da attraversare.
Fausto Coppi è secondo in classifica generale con un minuto scarso di ritardo da Adolfo Leoni e 10′ di vantaggio sul rivale di sempre, Gino Bartali.
Potrebbe anche gestire, Leoni non è uno scalatore, eppure parte a 192 chilometri dal traguardo e non si ferma più, una fuga leggendaria che lo porta di fatto quel giorno a vincere il Giro d’Italia, il suo terzo, ma la leggenda è lì dietro l’angolo.
Pochi mesi dopo ecco anche il Tour de France, la prima doppietta mai realizzata da un ciclista nella storia. Anche qua, Bartali secondo.
La rivalità con Gino Bartali
E qui veniamo non solo alla storia del ciclismo, ma alla storia dell’Italia, probabilmente. Fausto Coppi e Gino Bartali, Gino Bartali e Fausto Coppi: come guelfi e ghibellini, Don Camillo e Peppone e quant’altro.
Due mondi, verrebbe da dire due partiti politici, due maniere di intendere la vita: il piemontese brillante, più giovane peraltro, e il toscano passionale, ribollente e pessimista (“Gli è tutto sbagliato, gli è tutto da rifare”).
Fausto Coppi meglio o peggio di Gino Bartali ciclisticamente parlando? Parliamo di 4 Tour de France vinti complessivamente, due a testa, e di 8 Giri d’Italia (5 a 3 per Coppi). Comunque due giganti.
I personaggi, poi, immortalati in una delle immagini più famose non solo dello sport, come detto, ma dell’intera società italiana: il passaggio della bottiglia sul Col du Galibier al Tour del 1952.
Da che parte stavano gli italiani in quegli anni Quaranta o Cinquanta, quando tutto era diverso anche a livello di costumi? Il cattolico praticante Gino Bartali forse si faceva preferire, rispetto al Fausto Coppi “traditore della famiglia”, quello che molla la moglie per andare con la “Dama Bianca” Giulia Occhini.
Ma anche questo fa parte di un racconto popolare che ha segnato a fondo l’immaginario collettivo. Con Bartali che negli ultimi anni di carriera di Coppi lo volle nella sua squadra, quando già era direttore sportivo.
Che corridore era Fausto Coppi
Un massaggiatore cieco, il leggendario Biagio Cavanna, un cuore che a riposo batteva appena 34 volte al minuto, una capacità polmonare in grado di resistere anche allo sforzo più duro: insomma, la macchina perfetta.
E poi la cura dell’alimentazione, con carne di pollo e pesce come carburanti, basta con i rifornimenti e le diete preparati a caso, le gare studiate nel dettaglio: insomma, un pioniere, Fausto Coppi.
“Un ragazzo segaligno, magro come un osso di prosciutto di montagna, ha vinto attraversando l’appennino sotto la pioggia diluviale”, così apparve a Orio Vergani al Giro d’Italia del 1940, il primo portato a casa a 21 anni, all’epoca il più giovane di sempre a riuscirci.
Fortissimo in montagna, eccezionale anche a cronometro (stabilì anche il record dell’ora), modellatosi nei chilometri e chilometri di strada spazzolati quando era garzone di bottega di un salumiere di Novi Ligure.
“Le vittorie di Fausto Coppi erano letteratura, le mie solo cronaca”, avrebbe ammesso Eddy Merckx, uno che insomma qualcosina ha conquistato, eppure si è sempre mantenuto molto rispettoso nei confronti del Campionissimo.
La morte prematura
“Il grande airone ha chiuso le ali”. Altra frase storica su Fausto Coppi, purtroppo riferita alla sua morte, avvenuta il 2 gennaio del 1960, quando il grande campione aveva appena 40 anni.
Fatale un viaggio in Alto Volta, il vecchio nome del Burkina Faso prima dell’indipendenza, per una gara ciclistica con l’amico Raphael Geminiani e una battuta di caccia, altra grande passione di Coppi.
Malaria, non diagnosticata in tempo, con la beffa ulteriore di un Geminiani che, lui sì, grazie a un consulto medico d’urgenza era riuscito a salvarsi.
Fausto Coppi invece, pur debilitato, incredibile ma vero era andato a caccia di nuovo nella sua tenuta dell’astigiano, concedendosi addirittura una puntatina allo stadio per vedere il “suo” Alessandria contro il Genoa.
L’agonia terribile, le due famiglie al capezzale, un paese intero con il fiato sospeso prima della notizia definitiva. Una commozione che portò 50mila persone al funerale sulle colline intorno a Castellania, narrato splendidamente dal compianto Gian Paolo Ormezzano.
Come sempre succede, “muore giovane chi è caro agli dei”, e il mito di Fausto Coppi purtroppo si è creato anche così. Il mito del Campionissimo.