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La retrocessione è sempre un evento raro. È un evento per certi versi assurdo. Vincere lo è statisticamente di più, è vero. Ma retrocedere equivale a perdere tutto. Non una partita, non una finale, ma l’intera posta in gioco, il proprio stesso essere. La propria essenza di squadra, partita ad agosto con le migliori aspettative, si trova clamorosamente, e inaspettatamente, proiettata nel baratro della serie cadetta.

Se la retrocessione è sempre un evento sportivamente drammatico, però, non tutte le storie di un declino si equivalgono. Confrontare la retrocessione del Benevento di due stagioni fa con quella dell’Empoli dello scorso anno, solo per fare l’esempio più recente, sarebbe un’ingiuria. Se i giallorossi, infatti, già dopo 10 partite potevano dichiararsi inadatti ad affrontare con dignità – neanche con difficoltà – il massimo campionato italiano, gli azzurri guidati da Andreazzoli sono riusciti a giocarsela fino all’ultimo respiro sul campo dell’Inter, a San Siro, trascinati dalla sorpresa della stagione, bomber Ciccio Caputo – autore di 16 gol in 38 presenze.

Ci sono, dunque, retrocessioni e retrocessioni. Pur nella comune tragicità dell’evento, allora, scopriremo oggi – o meglio rivivremo morendo – quelle che hanno fatto la storia.

Milan 81/82

La rosa del Milan 81/82

L’estate del 1981 è una delle più assurde dal punto di vista societario nella storia dei Rossoneri. L’allenatore Massimo Giacomini, dopo aver centrato la promozione in Serie A, decide con largo anticipo di dimettersi a causa della scelta – peraltro non folle – della società rossonera di rimpiazzarlo con Gigi Radice, autore di un’incredibile salvezza col Bologna. È questo il preludio di un tramonto comunque inaspettato.

17 luglio 1981. È un venerdì. E basterebbe solo questo a spiegare l’annus horribilis di quel Milan. Ma la serietà del nostro compito ci impone di andare oltre la legge delle stelle e dell’arcaico vaticinio. Di stelle quel Milan ne ha poche in squadra. Un mercato povero di entusiasmo – e di soldi – porta alla fine all’acquisto di Joe Jordan, comunque tra i migliori quell’anno.

La squadra gioca male, perde tante partite e al termine del girone di andata la società decide di esonerare Radice. Italo Galbiati è l’eroe pronto a sostituirlo. 21 marzo del 1982. Il Milan naviga ormai in acque tetre. L’infortunio di Baresi sta pesando enormemente su una rosa debole, sfilacciata e senza l’umiltà necessaria a rimboccarsi le maniche per evitare un tracollo che avrebbe dello storico. È dunque il 21 di marzo che il fantasma della B inizia a materializzarsi, quando al termine di un Como vs Milan vinto dai padroni di casa, i tifosi rossoneri, all’uscita delle squadre dal campo, prendono di mira il pullman dei giocatori colpendo alla testa il povero Collovati. È caos totale.

Le reti di Maldera contro Genoa e Avellino – entrambe splendide – donano un’ultima speranza ai rossoneri, che però contro il Torino proprio di Giacomini, dopo novanta minuti di assedio, non riescono ad andare oltre il pari. Così, all’ultima giornata, la classifica recita Cagliari e Genoa a 24, Bologna a 23 e Milan, fanalino di coda, a 22.

Durante gli ultimi novanta minuti di campionato, accade di tutto. Il Genoa perde al San Paolo contro il Napoli, il Milan rimonta il Cesena da 2-0 a 2-3 – con una rete capolavoro di Antonelli – e mancano 5’ alla fine. Il Bologna ha perso, ma un errore di Castellini a Napoli regala il corner da cui scaturirà il pareggio del Genoa, firmato da Faccenda. Che fa rima con ammenda e significa Serie B per il Milan.

Torino 88/89

Muller, Skoro e Edu. I 3 stranieri del fallimentare Torino 88/89

Polster e Berggreen, pupilli a parimerito del presidentissimo pisano Anconetani, lasciano il Comunale. Un Torino reduce da una buona stagione, conclusa al settimo posto, è ancora ignaro di ciò che sta per accadere.

Edu Marangon e Luis Muller, entrambi brasiliani, portano una ventata di genio e sregolatezza – soprattutto quest’ultima – sotto l’occhio vigile della Mole. Skoro e Zago chiudono un attacco di belle speranze, ma inesperto e quantomeno bizzarro.

A guidare quel gruppo, però, c’è una sorta di garanzia senza restituzione: Gigi Radice, autore del miracolo Granata di dodici anni prima – come passa il tempo. Radix viene fatto fuori dalla dirigenza granata quando, nonostante la bella vittoria contro la Roma all’Olimpico per 1-3, il Torino perde contro il Bologna una partita che in molti ricordano come l’inizio della sciagura toro.

A sostituire il tremendo Radice c’è un altro tremendissimo, l’ex capitano Sala. Ma le prodezze dell’ala granata non sono le stesse da tecnico, tutto al contrario. La squadra gioca persino peggio, è sfaldata e zeppa di malumori. La società prova così l’ultima mossa; dentro Vatta, un allenatore che ha dato e darà vita, col suo lavoro in Primavera, a tanti campioni in maglia Torino. Ma la Serie A non è la Primavera, e nonostante due belle vittorie con Como (3-2) e Inter (2-0), l’ultima trasferta di Lecce risulta quella definitiva e irreversibile. Il Torino perde 3-1 ed è in Serie B. Purtroppo per i tifosi granata, non sarà l’ultima amarezza dei successivi 30 anni.

Fiorentina 92/93

Una formazione della sciagurata Fiorentina 92/93

Il 3 gennaio del 1993, la Fiorentina di Gigi Radice si presenta alla partita contro l’Atalanta da seconda della classe. La stagione, iniziata con acquisti di prim’ordine – Laudrup ed Effenberg, Baiano e Di Mauro –, sta procedendo per il meglio. Nonostante un doppio inquietante scivolone contro Milan e Napoli (3-7 al Franchi e 4-1 al San Paolo), la Viola si rende protagonista anche di qualche bella vittoria, su tutte quelle contro Roma e Juventus. Ma la Dea, sbendata, porta alla Fiorentina un mare di guai. Persa quella partita, qualcosa si incrina. Misteriosamente.

Lo scivolone in diretta tv al Processo di Biscardi è un effluvio di inadeguatezze che a monte nasconde un rapporto niente affatto sereno tra il presidente Cecchi Gori e l’allenatore, Gigi Radice – il cui figlio avrebbe intrattenuto una relazione proprio con la moglie del Patron viola. Comunque sia, Radice se ne va; subentra Agroppi.

Durante Italia-Messico (20 gennaio del ’93), il Franchi si scaglia con veemenza contro la Nazionale e Matarrese, attirandosi le ire di tutta Italie e, cosa ben più grave, dell’intera classe arbitrale. Quest’ultimo fattore, unitamente ad una squadra in grande difficoltà dal punto di vista delle prestazioni e del gioco, uscita stanca e sovrappeso dalle feste natalizie, creano l’esplosione definitiva.

Il 6-2 sul Foggia all’ultima non bastò ad evitare la retrocessione di una squadra che, a leggere i nomi – Mareggini, Carnasciali, Pioli, Luppi, Carobbi, Di Mauro, Effenberg, Orlando, Laudrup, Baiano, Batistuta –, poteva tranquillamente ambire all’Europa. Le stelle fan girar la testa, si sa, ma quella rimane una delle retrocessioni più (in)credibili nella storia del calcio.

Napoli 97/98

Il disastroso Napoli 97/98

Non potevamo non citare la stagione ‘97/‘98 del Napoli post-maradoniano. Eppure, qualcosa ci dice che la legittimità di questa citazione, in un listone così drammatico, è quantomeno da mettere in discussione. Lo capite già dalla prima frase, il perché. Come poter resistere al post-Maradona sperando di rimanere saldi e forti? C’è un prima e un dopo Maradona nel calcio. Figuriamoci nel Napoli, che è già sinonimo di Diego Armando Maradona.

Eppure dal suo addio qualche annetto era passato. Se è vero dunque che l’addio, certamente sofferto e travagliato, di Maradona da Napoli, non è un fatto da sottovalutare, è altrettanto vero che le responsabilità di quella retrocessione vanno divise in parti eguali, e non hanno Diego come colpevole, ormai lontano dai lidi della terra partenopea.

Da Ranieri a Marcello Lippi, da Boskov a Luigi Simoni, ultimo tecnico in grado, nella stagione 1996/97, di condurre il Napoli ad una stagione entusiasmante con il raggiungimento della finale di Coppa Italia, persa dai partenopei contro il Vicenza. La stagione della retrocessione si apre con le cessioni di Simoni all’Inter, Boghossian alla Sampdoria, Caccia all’Atalanta, Pecchia alla Juventus, e i difensori Cruz e Colonnese, rispettivamente, al Milan e all’Inter.

La squadra, guidata da Bortolo Mutti, parte male ma sembra avere grinta da vendere. Il giovane Protti, reduce da una stagione tutt’altro che positiva alla Lazio, vede nei simil-colori del Napoli una squadra nella quale rinascere. Lui, insieme a Bellucci, ventenne di belle speranze (confermate quell’anno), provano a tirar su una barca che affonda partita dopo partita.

Il 6-2 all’Olimpico contro la Roma di Zeman obbliga Ferlaino, spinto anche dall’insistente voce del popolo napoletano, a licenziare un allenatore magari intrigante ma troppo provinciale – vedasi le affermazioni, sempre troppo moderate, post-partita. Arriva Mazzone.

Il tecnico romano, reduce da un’ottima ma sfortunata annata col Cagliari, chiede alla dirigenza l’ex Roma Giannini – durerà pochissimo il di lui matrimonio col Napoli. Mazzone punta ad un calcio concreto ed efficace, ma gli bastano quattro partite per capire che la strada è dura e, soprattutto, già sbarrata. Il suo volto bagnato dalla pioggia di Lecce a fine partita, dopo una terribile sconfitta coi salentini, è l’immagine che rimarrà scolpita nei ricordi dei tifosi partenopei. Un’immagine che sembra cantare una canzone triste, tristissima. La retrocessione sembra cosa fatta.

La dirigenza cambierà in altre due circostanze, prima con Galeone – che avrà solo l’onore di rimontare una fortissima Fiorentina, quella di Rui Costa e Batistuta, allenata dal grande Malesani – poi con Montefusco, dopo l’ennesima sconfitta (8 febbraio 1998) per 5-0 contro l’Empoli. Troppo grave per non fare qualcosa. Arriva dunque Montefusco Vincenzo, esperto allenatore della Primavera.

Qualche bella partita fa sperare i tifosi, ma il clima è grigio e il miracolo più impossibile del miracolo stesso. Dieci sconfitte nelle ultime quattordici partite decretano un verdetto terribile. L’11 aprile del 1998 il fallimento è definitivo. Cannavaro, cuore napoletano, segna la rete del 3-1 (Parma-Napoli) e dichiara a fine partita: “Mi dispiace per il Napoli, ha vissuto una stagione tormentata, mi dispiace veramente”.

Sampdoria 2010/11

Palombo in lacrime per la retrocessione della sua Sampdoria 2010/2011

Concludiamo la carrellata di tristi ricordi con quello forse più vivido ai nostri occhi: la retrocessione della Sampdoria nella stagione 2010/11. Non serve scavare nella stagione dei blucerchiati per trovare i motivi di una debacle tanto maestosa quanto lo era stata la cavalcata della stagione appena trascorsa, e conclusa con la qualificazione ai preliminari di Champions League.

La sconfitta nella doppia sfida col Werder Brema – decisivo il 3-1 in Germania – lascia i tifosi con l’amaro in bocca. Ma senza veleno, ancora. I primi sintomi di una febbre irreversibile si manifestano nella lite Garrone-Cassano di inizio stagione. Non un’influenza momentanea, ma un virus perenne. L’addio di Cassano e quello di Pazzini a gennaio (destinazioni Milan e Inter) sbaragliano carte già confuse.

La sconfitta interna col Palermo sancisce la definitiva retrocessione – è la nona sconfitta stagionale al Marassi, un record. Quella coi rosanero è solo l’ultima clamorosa caduta, all’interno di una stagione da brividi. 26 punti all’andata, 10 al ritorno. Dieci. In 19 partite. Le lacrime di Palombo contrastano la codardia dei suoi compagni di squadra, rifugiatisi negli spogliatoi al termine della partita. È una maledizione per la Sampdoria. Questa volta la Cabala c’entra eccome. Quattro retrocessioni, tutte a numero palindromo: ’66, ’77, ’99, ’11. Tutti allenatori calvi: Bernardini, Bersellini, Spalletti, Di Carlo e Cavasin.