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Uno dei cambiamenti più rilevanti della storia di questo torneo è arrivato nel 1993, quando si stabilì che si potesse avere un unico campione. Accadde per evitare non solo che due squadre si dividessero gli onori, ma anche per eliminare definitivamente il precedente del 1973, quando tutte le squadre pareggiarono a quattro punti. Dalla suddetta data esiste una classifica ufficiale, nella quale i pareggi si rimettono alla differenza dei punti, e soprattutto alle mete portate a casa. Poco dopo si produsse l’ultima, grande novità del torneo: nel 2000 fu ammessa l’Italia, e le squadre passarono dal Cinque (Nazioni) al Sei.

Sì, parliamo di rugby. E parliamo di cambiamenti. Dopo l’Italia, un anno appena d’attesa, arrivò anche l’aiuto delle telecamere per l’arbitro, perché questo sport è sempre stato parecchio tempo avanti rispetto agli altri. Stessa sorte per il Var e il quarto ufficiale di gara. Ma insieme all’Italia, nel nuovo secolo, è stata proprio la professionalizzazione a diventare ogni volta più grande. In questi 14 anni, i trionfi sono stati divisi tra le grandi e il dominio è stato alterno: Inghilterra, Francia, Galles, Irlanda. Solo loro, a portare a casa la Coppa. Gli italiani non hanno mai assaggiato il miele del successo, ma con il passare degli anni hanno superato barriere.

La partecipazione dell’Italia

Si apriva, comunque, l’era italiana: anno 2000, il rugby cambia la sua storia. Con Inghilterra, Scozia, Galles, Irlanda e Francia, ecco pure gli azzurri. Si arriva al massimo livello di uno sport che iniziò con il marchio britannico e che nel tempo aveva accettato solo la competizione della Francia, per poi fondare il leggendario torneo già nel 1910. Prima, nel 1883, in Gran Bretagna giocavano esclusivamente tra di loro, pure in maniera discontinua. Dopo la creazione della federazione francese nel 1887, i contatti con le Isole permisero l’incorporazione francese. L’incognita, 90 anni dopo, era se il cambio di tradizione sarebbe stato positivo per elevare il livello del rugby europeo, ancora parecchio lontano dai grandi paesi del sud: Australia, Sudafrica, Nuova Zelanda.

Le reazioni? L’arrivo dell’Italia era diventata un’arma a doppio taglio. Sembrava aver ormai guadagnato il diritto ad aprire la porta grazie a incredibili risultati contro tre degli ‘inquilini’ del vecchio Cinque Nazioni, però nella Coppa del Mondo immediatamente precedente al fatidico ingresso, nel mese di ottobre, aveva prima perso contro Tonga, e poi preso 60 punti di distanza dall’Inghilterra. Ancora, quasi 100 contro la Nuova Zelanda. Ecco, per intenderci: la Spagna, di gran lunga inferiore, aveva perso con il Sudafrica di soli 40 punti nello stesso periodo. E chiedeva a gran voce un cambio al vertice. O negli immediati pressi.

Sin dal primo giorno, le parole sull’Italia si sprecavano. L’ambiente scommetteva prevalentemente su quanto avrebbe tardato la Nazionale nel portare a casa la prima vittoria. Del resto, la partenza era a tutto fuoco: c’era subito la Scozia, in casa, che aveva vinto l’ultimo torneo. Apparentemente insormontabile, ma comunque un ricordo meraviglioso: a Treviso, nel ’98, gli azzurri avevano infatti battuto il dream team britannico per 25-21. Fu quella, la scintilla. Fu lì che il board decise di portare nell’olimpo rugbystico l’Italia.

Dal 2000 in poi

E allora, partiamo. 5 febbraio 2000, ore 15, Roma: l’Italia, al Flaminio, accoglie i campioni scozzesi. E’ tripudio, è meraviglioso, è una gara giocata di nervi e di voglia. E’ 34-20, alla fine, per gli azzurri. Ed è bellissimo vedere lo storico impianto romano colorato a festa e cantare l’inno di Mameli. Un debutto infinito, capitanati da Visser e Dominguez. Poco importa la successiva batosta di Cardiff, col Galles. Nemmeno i 50 punti di distanza con l’Irlanda in quel di Dublino. Resta addosso l’odore di quella prima vittoria che legittimava il percorso e la scelta di allargare il torneo. La quarta giornata? 59-12 per l’Inghilterra, poi il mezzo sogno allo Stade de France di Parigi contro i transalpini: dopo un grande inizio – e un intervallo sul 20-17 -, 42 a 31 per la Francia. Alla fine sì, è ultimo posto insieme alla martoriata Scozia. Però… niente cucchiaio di legno (cioè sei sconfitte su sei) e consapevolezza di poterci stare, tra le grandi.

Quasi 20 anni dopo, la nazionale ovale si è trovata a fare i conti con una mezza disfatta. E’ diventata la cenerentola pronosticata, ma soprattutto è l’Italia più battuta nella storia dello sport nostrano. L’anno scorso, le sconfitte di fila nel Sei Nazioni, sono arrivate addirittura a 15; le avversarie contro Parisse e compagni fanno tranquillamente (e in maniera massiccia) turnover. Hanno perso oltre l’85% delle gare disputate, con una media sempre di 20 punti di scarto. Massimo Giovannelli, il capitano di quell’Italia del 2000, quella che conquistò il Sei Nazioni alla fine degli anni Novanta, ha spiegato con una frase importante la grande crescita – e poi decrescita – del movimento italiano: “Allora ci fu una coincidenza di eventi positivi: il crollo del regime di Ceausescu tagliò fuori la Romania, che era la vera candidata; ci ritrovammo con una generazione speciale (i Cuttitta, Vaccari, Dominguez, Troncon, Croci, Properzi), stipendiata dai club e gestita da francesi – Fourcade, Coste – che sapevano trasformare la pietra in oro; il presidente Dondi fece un capolavoro di politica e diplomazia. Giochi di soldi, di potere, di prospettive diverse. Il patto d’onore era: coi soldi in arrivo, ci saranno investimenti. Allenatori, dirigenti e grandi strutture per grandi città. In realtà, l’Italia si ritrova con milioni sperperati e metà delle squadre che arrivano dal Veneto, quindi Parma e l’Aquila. Poca copertura tv e gli sponsor che latitano. All’Olimpico sono in sessantamila: ma chi va a vedere il campionato italiano? Sembra una vita fa, quel pomeriggio d’inizio febbraio, in cui la storia pregustava un cambiamento drastico.

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