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Sono Speciale. Sono l’allenatore campione d’Europa, sono per forza speciale.

Queste sono le parole pronunciate da Josè Mourinho in un giorno d’inizio estate del 2004. Si trova nelle viscere di Stamford Bridge quando le pronuncia, ed è davanti alla stampa di mezza Europa.

È appena stato scelto Roman Abramovich per guidare il Chelsea e quelle sue parole racchiudono il motivo ultimo per cui viene scelto per sedersi sulla panchina blues.

Basta con la compostezza impersonata da un signore della panchina come Claudio Ranieri, Abramovich vuole qualcosa di più strong, qualcosa che rompa gli schemi e che metta il Chelsea sempre sulla bocca di tutti.

Prima che per le sue qualità di manager, che comunque all’epoca arriva da due trionfi europei consecutivi alla guida del Porto, Mourinho viene sempre scelto per quell’immagine di rottura che lo accompagna sempre, e che adesso sembra quasi un peso.

Mourinho, Robson e quel Barcellona dove tutto iniziò

Il luogo d’inizio della storia speciale di Mourinho è il più insolito e lontano da lui che si possa immaginare. Nel corso della sua storia di allenatore lo Special One ha avuto una sola e unica vera nemesi che lo ha accompagnato sempre: il Barcellona e, di riflesso, il Guardiolismo.

È davvero ironico quindi come tutta la vicenda professionale del Mourinho allenatore veda la prima tappa significativa proprio dalla società catalana.

Anno di grazia 1996: il Barcellona ingaggia un mister inglese, Bobby Robson, e cambia anche volto della squadra orfana dell’epoca di Crujiff, dei Romario e dei Koeman. Arriva in squadra un ragazzotto brasiliano di belle speranze a nome Ronaldo e si torna a competere per grandi risultati.

Per guidare meglio la squadra Robson necessita di un interprete e si ricorda di un ragazzo che lo seguiva ai tempi dello Sporting di Lisbona, vale a dire Josè Mourinho. In breve tempo JM diventerà il vero punto d’equilibrio della squadra, la spalla su cui vanno a piangere i giocatori esclusi e un vero e proprio confessore dello spogliatoio, anche perché è risaputo come lo stile di Robson sia sempre stato un po’ distaccato.

Mourinho è invece l’esatto opposto e vive in maniera simbiotica quell’esperienza al Barcellona. Colmo dei colmi, ma sempre col senno di poi, è il legame particolare che instaura col capitano di quella squadra, e cioè Pep Guardiola.

Oggi, domani e sempre con il Barça nel cuore

Mourinho, 28 giugno 1997, durante i festeggiamenti per la vittoria della Coppa del Re

Dopo la cacciata di Robson, a cui non basta la vittoria in coppa del Re e nella Coppa delle Coppe 97′, Mourinho rimane come assistente di Loius Van Gaal, fino all’alba del nuovo millennio.

Poi inizia a farsi strada la voglia di indipendenza e accetta la chiamata del Benfica nell’autunno del 2000, salvo poi dare le dimissioni dopo appena 9 partite, a causa del cambio di proprietà in seno alla società.

Appena un anno dopo lo ritroviamo sulla panchina del Porto, dopo una sfolgorante esperienza sulla panchina dell’Uniao Leira, portato al terzo posto in classifica: questo exploit gli vale la chiamata dei Dragoes in piena crisi.

Genesi del Mourinho “Special One

Quello che combina Josè Mourinho sulla panchina del Porto è scolpito nella storia, non solo della società portoghese, ma anche del calcio Europeo. Per due anni consecutivi riesce a vincere in Europa, prima con la Coppa Uefa del 2003 e poi con la cavalcata Champions del 2004.

Gli appassionati europei iniziano a conoscere Mourinho proprio durante la sua trionfale campagna europea del 2004, alla guida di un Porto non certamente additato come favorito per la vittoria finale. Durante l’ottavo di Champions contro il Manchester United di Ferguson, Josè sfodera gran parte del suo repertorio, compreso uno dei classici mourinhani, cioè il gol telecomandato.

Si tratta di un tipo di gol fortemente influenzato dall’allenatore e in quella specifica occasione tocca a Costinha essere la pedina con cui Mourinho riesce a fare scacco contro Ferguson.

Sulla punizione di Benni McCarthy e la respinta incerta del portiere piomba il suddetto Costinha, messo nella zona delle operazioni proprio su specifica richiesta di Mourinho. Non c’è da meravigliarsi se, appena si concretizza il tap-in vincente, l’Old Trafford si trova ad assistere alla corsa esultante del mister portoghese che si trova a fare mucchio coi suoi sulla bandierina del calcio d’angolo.

Esulta come se il gol fosse suo e c’è da giurare che lo pensi veramente.

Da li in poi è cavalcata trionfale verso la seconda Champions della storia dei Dragoes e dopo qualche settimana il film della carriera di Mourinho ci porta a Londra, dove nella conferenza stampa di presentazione pronuncia le parole che gli assegneranno il soprannome di tutta una carriera: Special One.

Vi prego di non chiamarmi arrogante, ma sono campione d’Europa e credo di essere speciale.

Josè Mourinho

Nonostante il disclaimer iniziale, l’arroganza viene vista come marchio di fabbrica dell’essere Mourinho.

Ma ai tifosi del Chelsea non importa, anzi, questa sua continua guerra contro chi lo giudica altezzoso e provocatorio, non produce altro che un senso di appartenenza e attaccamento ancor più marcato. Dal punto di vista ambientale si sviluppa il il climax classico delle esperienze mourinhane in panchina: noi contro il mondo.

Nel suo modo di intendere la gestione di un gruppo e nel suo modo di guidarlo anche psicologicamente, questo clima è necessario per tirare fuori il meglio dai giocatori, ma anche dai tifosi che lui giudica davvero come un dodicesimo uomo: non è un caso che le sue squadre siano state imbattute in casa per la bellezza di 9 anni e 38 giorni – dal 23 febbraio 2002 (Porto-Beira Mar 2-3) al 2 aprile 2011 (Real Madrid – Sporting Gijon 0-1).

Grazie a tutto questo circo mediatico, abilmente costruito ad arte, e alla qualità di una squadra forte e ben guidata porta il Chelsea ad un trionfo in campionato che mancava da 50 anni, e raggiunge 2 semifinali di Champions in 3 anni, sempre battuto dal Liverpool di Benitez, prima con un gol fantasma di Luis Garcia nel 2005 e ai rigori nel 2007.

Mourinho non è un pirla

Ma per i tifosi italiani Mourinho diventa un personaggio assoluto nel biennio 2008/2010. In queste due stagioni è chiamato da Moratti alla guida dell’Inter, alla disperata ricerca di una dimensione europea.

Di nuovo è la conferenza di presentazione a fare da gustoso antipasto per quelli che saranno due anni di grande pacchia per i giornali, con un Mourinho a fare sempre notizia.

Cronista inglese: Pensa che Lampard potrebbe trovarsi bene nel calcio italiano?
José Mourinho: Perché mi chiedi di un giocatore del Chelsea?
Cronista inglese: È un modo furbo di riproporre il tema che lei ha appena evitato.
José Mourinho: Sì, siii… Ma io non sono un pirla.

Presentazione all’Inter 8 giugno 2008

Per tutta la durata della sua esperienza italiana Mourinho tira abilmente la corda, mantenendo alto il livello di tensione mediatica, ma spostandolo tutto su di lui, per alleggerire la squadra da una pressione sfiancante.

L’inventario di perle mourinhane di quel periodo è davvero sconfinato: dalle aree di rigore di 25 metri valide solo per la Juve, alla prostituzione intellettuale passando per gli ormai celebri “zeru tituli“. Il Mourinho nerazzurro è tutto esagerato, non solo in sala stampa ma anche in campo.

Tra Gennaio e Febbraio 2010, resosi conto che la squadra ha davvero la possibilità di fare qualcosa di grande, mette in campo tutta la sua verve.

Durante una gara contro la Sampdoria protesta platealmente mimando il gesto delle manette, facendo diventare una normale partita di metà stagione una questione di vita o di morte: i giocatori in campo si adeguano e l’Inter si produrrà in una stoica prestazione in 9 contro 11 difendendo il pareggio e anzi sfiorando la vittoria.

Contro il Siena in casa, sotto per 3-2 a due minuti dal termine, intima a Walter Samuel di mettersi a fare il centravanti. Pareggia Snejider su punizione e il roccioso centrale argentino si posiziona nuovamente a difesa della porta di Julio Cesar. Non l’avesse mai fatto. Mourinho lo mangia vivo, e lo sposta quasi fisicamente ai limiti dell’area senese: al 3’di recupero chi segna il gol della clamorosa rimonta? Samuel ovviamente. Anche questo va sotto la colonna dei gol telecomandati.

Nel derby di ritorno contro il Milan si raggiunge l’apice. I rossoneri sono dietro di 6 punti e vogliono riaprire la lotta scudetto inserendosi tra Roma e Inter. Dopo pochi minuti di gioco viene espulso Snejider per un applauso al direttore di gara: Mourinho inizia a dare di matto.

Alza il livello della tensione oltre ogni limite: l’Inter, anziché abbattersi per l’inferiorità numerica, ha letteralmente la bava alla bocca e aggredisce il Milan.

Segna Milito già prima dell’intervallo, poi arriva il gol telecomandato ovviamente. Pandev viene richiamato in panchina, ma proprio mentre si sta effettuando il cambio l’Inter guadagna una punizione dal limite. Mourinho, tarantolato come poche volte, si sbraccia per ritardare il cambio, vuole che sia Pandev a calciare la punizione: lui, che poi non è che sia mai stato questo fior di specialista dei calci da fermo.

Appena la palla supera barriera e Dida, le telecamere vanno su chi sta esultando. Pandev? no di certo…Mourinho si gira platealmente verso la tribuna e con gli indici punta verso di lui, attribuendosi la paternità del gol.

Il tutto si concluderà con un Mourinho novello William Wallace stile Braveheart del popolo interista, dopo che Julio Cesar para un rigore a Ronaldinho, aizzando lo stadio e facendo produrre a San Siro uno dei boati più crudi e violenti della sua storia interista.

L’Inter di Mourinho

Ma, oltre a tutta la melma mediatica che Mourinho agita appena può, sarebbe ingeneroso pensare che le sue qualità di allenatore si esauriscano in sala stampa. L’Inter, per sua stessa ammissione, è la più grande impresa della sua carriera, costruita sul campo e con dei precisi stilemi che caratterizzano sempre le formazioni dello Special One.

Prima di tutto la difesa, e la gestione delle energie. Guardando le partite dell’Inter di quella stagione si possono notare lunghi tratti di gara, in cui apparentemente la squadra si produce in uno stucchevole possesso palla, senza l’ombra di movimenti smarcanti. Sembra una formazione piatta e francamente difficilmente una squadra di Mourinho potrà mai rubare l’occhio degli esteti del pallone.

Siamo distanti dall’eretismo podistico di un Jurgen Klopp attuale, o dallo spettacolo del Sarri-ball. Questi larghi tratti di apatia servono alle squadre di Mourinho per rifiatare, risparmiare energie e rendersi più lucide al momento decisivo della gara.

Il concetto appena spiegato si applica anche alle stagioni ovviamente. La sua Inter 09/10, l’Inter del Triplete, arriva all’ultimo mese con le forze fisiche abbastanza intatte, e in uno stato di esaltazione mentale costruito ad arte dal mentalista Mourinho. L’apice della condizione psicofisica si avverte, netta e fragorosa, nella semifinale Champions di ritorno contro il Barcellona di Pep Guardiola, quando i nerazzurri rimasti in 10 riescono a sopportare l’onda d’urto di una delle squadre che hanno fatto la storia di questo gioco.

Ed è sempre li, in quella drammatica semifinale, che inizia la faida che caratterizzerà una buona fetta di carriera dello Special One.

Il Mourinho di Madrid: fagocitato dal suo stesso personaggio

Prima di firmare per l’Inter, nella primavera del 2008, Mourinho si reca a Barcellona, per un colloquio con la dirigenza blaugrana. C’è da sostituire Frank Rijkaard, e Mourinho sembra il favorito per la panchina, forte anche della sua pregressa esperienza catalana.

Mou presenta la sua idea di calcio, una bozza di campagna acquisti e chiede di avere il fido Guardiola come assistente. Alla fine non viene scelto per un motivo semplice: in quell’incontro, avverte anche che ci sarà da creare di continuo la bagarre mediatica, che l’ambiente deve essere sempre portato al limite. Questo spaventa un po’ la dirigenza, che decide di dare fiducia proprio a Guardiola, che con i suoi modi accomodanti e fintamente buonisti, sembra garantire una maggiore tranquillità.

Due anni e mezzo dopo in Spagna Mourinho ci approda comunque ma al Real Madrid. La contrapposizione con Barcellona e il suo condottiero è completa. Sono due modi opposti di intendere il calcio, sul campo e soprattutto in sala stampa. Se durante la semifinale del 2010 il Mourinho interista ha provocato il collega dirimpettaio, senza ricevere molta soddisfazione in verità, ora che la guerra si sposta tra le mura domestiche, nella sanguinosa lotta tra Real e Barca, Guardiola deve giocoforza ribattere.

I 3 anni di Mourinho al Real Madrid sono uno stillicidio di dichiarazioni di guerra verso Barcellona e il suo condottiero. La percezione dei tifosi verso Mou cambia durante queste 3 stagioni, in cui è comunque in grado di spezzare l’egemonia interna dei blaugrana.

 La domanda è: perché? Perché? Perché Ovrebo? Perché Busacca? Perché De Bleeckere? Perché Frisk? Perché Stark? Perché? Perché ad ogni semifinale accade sempre lo stesso? Perché Ovrebo da tre anni? Perché il Chelsea non è potuto andare in finale? Perché l’anno scorso l’Inter, che è stato un miracolo? Non so se è la pubblicità dell’UNICEF, non so se è il potere del signore Villar all’interno della UEFA. Non lo so, non capisco

Durante la conferenza stampa post-Real Madrid-Barcellona della semifinale di Coppa dei Campioni

Resta però la sensazione di un uomo eroso sempre di più da una guerra di religione difficilmente spiegabile, da un’acrimonia ingiustificata, che riversa nella provocazione talmente tanto esagerata da apparire grottesca.

Senza volerlo Mourinho si trasforma quasi nella caricatura di se medesimo. Lo spogliatoio del Real non reagisce come quello dell’Inter, e la squadre soffre terribilmente le crociate a cui il mister li sottopone. Arrivano 3 semifinali consecutive di Champions, ma non si riesce mai a centrare l’obiettivo. Anzi particolarmente dolorosa è la prima, con l’eliminazione per mano proprio del Barcellona.

Declino inglese?

Quando torna in Inghilterra Mourinho sembra voler tornare alla normalità. Sembra volersi ricostruire un’immagine carismatica e vincente, che la centrifuga di Madrid ha irrimediabilmente sgualcito.

Quello che accade in Spagna non lo aiuta granché, dato che il “suo” Real, lontano dalla frusta delle sue tensioni e messo nelle bonarie mani di Carletto Ancelotti, porta a casa l’agognata decima sempre sfuggita sotto lo Special One.

josè mourinho

Il ritorno al Chelsea sembra una liaison con una ex, più per ricordare com’eravamo e per affetto, che per una reale sfida professionale. Arriva un titolo, ma in generale sembra che ormai Mourinho non sia più così cool come poteva essere anni prima.

Tra il 2004 e il 2010 qualunque squadra volesse ambire al salto di qualità, aveva un unico nome in cima alla lista: quello di Jose Mourinho. Dal suo ritorno in Inghilterra invece sembra passato ad un ruolo di allenatore buono per provare a rianimare le grandi in crisi di identità: è stato così al Manchester United, ed è così ora al Tottenham. Non si ha più l’impressione che una squadra possa iniziare un ciclo vincente sotto la guida dello Special One.

La moda impone allenatori che sembrano più tecnici di laboratorio, applicati al rettangolo verde. Si riempiono la bocca di Gegenpressing, intensità e fasi di gioco attive e passive. La sala stampa diventa solo un mezzo per veicolare la loro personalità, non una precisa arma tattica.

I Klopp, i Nagelsmann, i Conte e persino i Guardiola. Tutti questi hanno volutamente preso una parte del vangelo secondo Josè, e lo hanno riadattato per metterlo a disposizione della loro idea di calcio. Non sono peggiori, anzi, sono una giusta e completa evoluzione della specie.

Prima Josè Mourinho faceva di tutto per vincere la partita fuori dal campo, prima che in campo. Ora le nuove leve cercano di battere l’avversario nei 90′ passati sul rettangolo verde. Tirano fuori il Mourinho che c’è in loro quando devono farti notare che hanno vinto. O magari quando perdono (vedere alla voce Antonio Conte).

Ma con questo non si deve pensare che JM, lo Special One o Mou siano finiti o scomparsi per sempre. Mai dare per finita gente così. Magari torna, chi può mai saperlo.