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Jay-Jay Okocha, di primo acchito, più che a un nome assomiglia ad una formula magica.

La magia, d’altra parte, sembra seguire come un’ombra la carriera – niente affatto ordinaria – di questo incredibile calciatore, fin dalla prima infanzia.

Quando vestirà la maglia del Bolton, allenato da the Big Sam, Sam Allardyce, i suoi tifosi lo nomineranno the Wizard, il Mago – e nessuno, dalla vecchia e cara patria del football fino ai confini estremi del Niger, oserà definirlo diversamente.

Il mago, per sbalordire il pubblico

«In Qatar mi annoiavo parecchio. Non c’è quasi nessuno a vedere le partite, l’atmosfera non mi piaceva»

Jay Jay Okocha

Durante le telecronache inglesi, condite di quella retorica tutta british che meglio di qualsiasi altro espediente linguistico è in grado di tracciare i contorni di un gesto tecnico d’alta scuola, Jay-Jay viene spesso seguito, come un’eco che rimbomba perennemente tra due caverne situate a specchio l’una dall’altra, da espressioni come “he’s a magician with the ball” o “Jay-Jay, the wizard strikes again”.

Già nel nome, Jay-Jay, oltre alle sembianze di una formula magica, è rinvenibile quello stile di gioco così indipendente e autonomo, unico e particolarissimo, del calciatore nigeriano più forte di tutti i tempi: la tautologia.

Le giocate di Okocha si assomigliano tutte l’una con l’altra ma, particolare non da poco, nessuna è identica all’altra.

Come un abile artista, lo stile di Okocha è riconoscibilissimo pur nell’inevitabile differenza dei suoi “pezzi” d’arte. Questo è ciò che fanno anche i maghi: differenziare il repertorio, ma rimanere essenzialmente riconoscibili. Non importa svelare il trucco perché la magia è l’abilità insita nell’averlo velato al pubblico.

Il pubblico, per Okocha, è sempre stato l’elemento indispensabile per divertirsi – e divertire – giocando al calcio.

Quando, nel 2006, andrà a giocare in Qatar, dopo l’esperienza inglese – salvo poi farvi ritorno, ma con la maglia dell’Hull City –, affermerà dispiaciuto al termine del lungo viaggio in terra medio-orientale: «In Qatar mi annoiavo parecchio. Non c’è quasi nessuno a vedere le partite, l’atmosfera non mi piaceva».

La stessa atmosfera che lo culla all’età di vent’anni, quando Okocha veste la maglia rosso purpureo dell’Eintracht di Francoforte.

Contro il Karlsruhe Okocha segna quello che è probabilmente il gol più bello della sua carriera. Il punteggio è di 2-1 per i padroni di casa, e a 10’ dal termine l’allenatore Toppmuller decide di buttarlo nella mischia – vuoi per quel rito sacrificale tipico del giovane calciatore, mandato al macello nel momento più difficile della partita, vuoi perché egli vede in quel giovane ragazzo nigeriano la possibilità di congelare la partita portando su qualche pallone pesante. Accade invece l’imponderabile.

Il gol è una danza della follia

«Giocando col pallone scopri cose che neanche tu pensavi di poter fare. E questo per me è la ‘gioia’: fare cose che per gli altri sono impossibili»

JAY JAY OKOCHA

Con le squadre lunghe e il fiato corto da entrambe le parti, Okocha svolge il ruolo che nella giungla è del leone a inizio giornata: far piazza pulita di gazzelle.

Rimane ancore oggi uno dei gol più iconici della Bundesliga.

Heinz Gründel è lanciato in contropiede e si presenta a tu per tu con Oliver Kahn, che lo costringe ad andare sull’esterno: da quella posizione di campo, però, è impossibile tirare. Gründel torna allora sui suoi passi e vede a rimorchio il giovane nigeriano.

Quest’ultimo prende palla e si ritrova anch’egli dinnanzi a Kahn, mentre i rinforzi giunti nel frattempo per difendere la porta dei bianchi vanno a posizionarsi dentro l’area piccola.

Okocha si porta il pallone sul destro, andando inspiegabilmente nella stessa zona dell’area da dove Gründel era stato costretto allo scarico.

Carica il destro e rientra sul mancino con tanta arte della recitazione che la finta fa cadere Kahn in maniera goffa.

Okocha non deve più preoccuparsi – almeno per il momento – del portiere tedesco, perché ora ha di fronte un difensore del Karlsruhe.

Lo salta andando sul mancino e quando si trova nella zona del dischetto del rigore fa un’altra finta – decisamente di troppo; ora ha tre difensori più Kahn davanti a sé.

Va allora sul destro, per poi tornare subito sul sinistro (siamo sempre lì). A quel punto, terminato il balletto, si rende conto di dover calciare in porta – nella situazione meno comoda di tutta l’azione.

Calcia di sinistro con quel movimento di gamba che diventerà un suo marchio di fabbrica – uno dei tanti; il piede non rimane all’altezza del terreno, una volta effettuato il calcio, ma si alza fino al livello del bacino; più che un tiro sembra una fionda.

Kahn è fulminato alla sua sinistra, Okocha si toglie la maglietta nonostante le temperature a dir poco fastidiose, prima di venire travolto dal compagno di squadra, che ha assistito a quel calvario durato un’eternità (per la precisione, 10 secondi).

La rivista sportiva tedesca Kicker darà un nome – consegnando dunque l’azione alla storia – a questa straordinaria giocata di Okocha: der Wahnsinnstanz (letteralmente, la danza della follia).

Cosa che, una volta di più, ci ricongiunge alla magia. Un po’ come il folle di Così parlò Zarathustra Okocha danza, ma non per gli dèi. Egli però senz’altro, con quel gesto tecnico di incommensurabile talento, entra per sempre nella storia dello sport più bello del mondo.

Quando molti anni dopo ci si occuperà della biografia di questo folle del calcio, si scoprirà un fatto curioso: Okocha nasce nel 1973 in Nigeria, e la sua etnia è quella degli Anioma, sottogruppo etnico degli Igbo.

Non solo quest’ultima è una delle etnie maggiormente coinvolte nella tratta degli schiavi, ma – cosa per noi decisamente più interessante – tra i suoi elementi fondativi si ritrova l’Atilogwu, una danza ballata con enfasi acrobatica e ritenuta avere origini magiche.

Da calciatore per caso a medaglia d’oro

«Argentina is good, but Nigeria is gold»

Nwankwo Kanu

Il mago, comunque, fino ai 18 anni, nessuno lo vede.

È a quest’età che Jay-Jay parte per la Germania in visita al fratello maggiore e, durante una giornata libera, accompagna un suo amico agli allenamenti del Neunkirchen. Saprete immaginarvi lo stupore dell’allenatore di questa piccola realtà tedesca, che vede Okocha toccare il pallone come pochi ragazzi sanno fare – nonostante Jay-Jay abbia meno della metà della metà dell’esperienza calcistica di molti suoi compagni, essendo essenzialmente cresciuto per strada – cosa che si ritrova d’altra parte anche nel suo stile di gioco. Dopo soli due anni da quel provino-non-provino, Okocha gioca con l’Eintracht in Bundesliga. Rimarrà in Germania per qualche tempo ancora.

Prima, però, Okocha si presenta al grande pubblico internazionale ad USA 94, l’ultimo Mondiale prima dell’irruzione del fattore atletico sul calcio – di lì in avanti, a pieno titolo definibile come moderno. In un contesto ancora fiabesco e bucolico, immagine fulgida degli anni ’90, la Nigeria si presenta all’appuntamento come una delle squadre più talentuose del torneo. Perderà proprio contro l’Italia e contro Roberto Baggio ma, sentite Sacchi, «la partita non la vinse Baggio,» dichiarerà molti anni dopo il ct azzurro, «la perse Okocha». Una dichiarazione pesante, magari esagerata ma senza dubbio significativa.

Il mistero, il grande mistero, è che pure a seguito di un mondiale giocato da protagonista, dieci sulle spalle e responsabilità senza pari nell’undici nigeriano, Okocha non fa parte dei piani dei grandi club europei.

Nel ’96, due anni dopo il bel mondiale della Nigeria, le Aquile si presentano all’Olimpiade con una squadra addirittura migliorata – con le aggiunge decisive di Tijani Babangida, Taribo West e Nwanko Kanu.

La Nigeria perde una sola partita, nel girone contro il Brasile. Riaffronta i verdeoro in semifinale; ne viene fuori una partita al cardiopalma. Dopo il momentaneo 3-1 dei brasiliani – che in campo hanno Ronaldinho, ma non quel Ronaldinho, bensì il Fenomeno con la 18 sulle spalle e un nome diverso da quello che lo consegnerà alla leggenda –, la Nigeria riesce a pareggiare quasi allo scadere dopo aver riaperto i conti nella ripresa.

Ai supplementari sarà Kanu, su un lancio di Okocha, a decidere con un bel piazzato mancino quella sfida.

In finale la Nigeria incontrerà l’Argentina dei Crespo, dei Lopez, degli Zanetti, degli Ayala e dei Sensini, per non citare che alcuni nomi pesantissimi. Niente da fare anche per l’albiceleste. Anch’essa avanti 2-1, perderà 3-2 grazie alla rete finale e decisiva di Amuneke.

«Questa vittoria è importante non solo per il calcio nigeriano ma per il calcio in generale. È la dimostrazione che il gioco offensivo non è solo uno spettacolo per il pubblico, ma può portare a grandi risultati», saranno le parole del mister di quella Nigeria l’olandese Jo Bonfrere.

«Argentina is good, but Nigeria is gold», dirà Kanu a fine partita. Vinto questo importante trofeo internazionale, si inizia a parlare di rilancio del calcio africano – se non di esplosione, più banalmente.

I nomi che circolano in Europa sono quelli di Amuneke, Kanu, West – questi ultimi due finiti all’Inter, come noto – ma nessun grande club punta gli occhi su Okocha.

Come è possibile? Forse la classe di Jay-Jay ha accecato anche i più esperti conoscitori di calcio, fatto sta solo i turchi del Fenerbahce si fanno avanti – qui, in un campionato ancora meno competitivo di quello attuale, Okocha segnerà la bellezza di 30 reti in 62 partite giocando da playmaker e bucando svariate volte la porta avversaria da calcio piazzato. Okocha cambierà il proprio nome in Muhammet Yavuz – dopo aver preso la cittadinanza turca – ma finirà presto al PSG.

Troppo bravo per non generare equivoci

«Molti giocatori dribblano tanto per dribblare. Okocha dribbla perché c’è bisogno che lo faccia»

Alain Giresse

L’8 agosto del ’98, da poco conclusosi il mondiale di Francia in cui la Nigeria non riuscirà a tener fede alla buona fama che ne accompagnava il nome, Okocha esordisce col PSG entrando a partita in corso, contro il Bordeaux.

Jay-Jay dà subito un saggio delle proprie incredibili doti di dribblomane e tiratore, prima saltando due avversari poi scaricando un fulmine terra-aria dai 25 metri, sul quale il portiere Ramé non solo non può reagire, ma nemmeno si accorge di non poterlo fare.

Dal replay si può notare come l’estremo difensore dei girondini avesse battezzato il pallone fuori dalla porta, salvo poi ritrovarsi goffamente impigliato nella rete. Un gol assurdo, l’ennesimo nella carriera di questo mago del calcio.

Giresse, suo allenatore a Parigi, dirà che «molti giocatori dribblano tanto per dribblare. Okocha dribbla perché c’è bisogno che lo faccia», sottolineando una volta di più il parere comune e cocciuto, quello che cioè vede il nigeriano come un semplice circense in grado di divertire il pubblico.

Non a caso l’allora presidente del PSG Charles Biétry dichiarerà: «Bisogna che questa squadra giochi in modo spettacolare e credo che raramente abbiamo visto un giocatore con queste qualità calcare un campo francese».

Spettacolo, appunto. E niente altro. È vero che il calcio in quegli anni inizia a prendere una forma diversa – passando dall’aspetto ludico a quello agonistico e professionistico dello sport – ma è altrettanto vero che Okocha potrebbe far comodo a parecchie squadre. Non solo Jay-Jay ha tecnica e qualità da vendere, ma è uno che sa quando e come decidere una partita, come e quando prendersi la responsabilità di un’intera squadra. Niente da fare.

Okocha finisce al Bolton nel 2002.

Ha ormai 29 anni e, nonostante le giocate in terra inglese dimostrino tutta la bontà della sua condizione atletica, ormai Okocha è un feticcio calcistico. Non è visto come un fuoriclasse, né apprezzato come il gran giocatore che è stato. “So good that they named twice”, gli cantano amorevolmente i tifosi del Bolton.

Ronaldinho dirà di essersi ispirato a lui su alcune giocate – specie il celebre stepover, la finta di Okocha per eccellenza. Come dicono in Inghilterra, game recognizes game.