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«Ho sempre giocato a calcio con lo stesso spirito con cui ci giocavo da bambino, con la stessa idea in testa da sempre: non considerare mai il calcio come una professione, ma come un divertimento».

«El Magico» Gonzalez

«Ora ho creato anche io ho una figura,» disse Boccadoro al proprio Maestro artigiano. «Non ne ho un’altra da fare, non c’è nessuna immagine che mi chiami, che mi costringa a rappresentarla». Con la grazia narrativa che contraddistingue Herman Hesse, proviamo ad avvicinarci, passo dopo passo, finta dopo finta, ad una di quelle figure la cui descrizione, per quanto eccellente, è sempre costretta a misurarsi col fallimento della propria impresa.

Che cosa significa essere un capolavoro? Significa compiere un atto, non l’azione dell’atto. Fuor di paroloni (di beniana memoria), Gonzalez è stato un capolavoro. Per noi tutti, che lo abbiamo ammirato. Per i propri amici, che lo hanno amato e detestato. Per le mille donne che, vagabondo come Boccadoro, ha incontrato lungo il proprio cammino, concedendo loro un frammento della propria esistenza.

Cosa rende magico «El Magico»

Nato il 13 marzo del 1958 a San Salvador, terra maledetta situata al centro dell’America latina, più argentina che brasiliana, Gonzalez muove i primi passi. Qui ritornerà, a fine carriera, sempre che di carriera si possa parlare, per legarsi nuovamente a quel lembo di terra, povero e insieme ricco, che ne ha segnato il carattere e lo smisurato talento.

Il calcio è davvero uno sport particolare. Quello che oggi è niente più che un semplice tassinaro, un tempo riempiva gli stadi, li commuoveva e li sbalordiva a ritmo di pase doble, di ruletas, con quel fare un po’ da enganche un po’ da ballerino andaluso. I particolari del Magico ne tradiscono l’istinto più recondito, zingaro e vagabondo, libero di esser libero.

Una catenina d’oro gli cinge il collo, il capello lungo e ribelle gli accarezza le spalle, piccole come quelle di un furetto. Le sue gambe, affusolate, riescono a muoversi col pallone tra i piedi nello stesso modo in cui il cuore, lo spirito, l’alma, gli brucia il petto per amore del futbol.

«Riconosco che non sono un santo, che mi piace la notte e che la voglia di sbronzarmi non me la toglie neanche mia madre. So che sono un irresponsabile e un pessimo professionista, e che probabilmente sto sprecando l’opportunità della mia vita. Lo so, però ho una “locura” nella testa: non mi piace considerare il calcio come un lavoro. Se lo facessi, non sarei più io. Io gioco solo per divertirmi».

«El Magico» Gonzalez

Il mondo ne nota con stupore l’incredibile bravura calcistica quando, durante il Mundial spagnolo del 1982, a noi italiani così caro, si mette in mostra con la maglia numero 10 sulle spalle. Tre sconfitte su tre per El Salvador, già soddisfatta per la storica partecipazione. Il meno contento di tutti è senza dubbio lui, El Magico. E non tanto per aver perso quelle partite, che per lui la sconfitta davvero ha la consistenza del vento, come la vittoria d’altra parte, ma per la caducità delle cose.

Questo rattrista El Magico, come Boccadoro, si diceva. La caducità delle cose. Anche quel Mundial è finito. Lui, El Magico, aveva condotto per mano quasi da solo, l’estate prima, la propria nazionale alla vittoria contro il Messico, ben più blasonato. Nello scontro diretto per la qualificazione ai mondiali spagnoli, una sua intuizione aveva permesso a Hernandez di involarsi verso la porta avversaria, dando il via alla festa. Non gli sembra vero, a Gonzalez. La festa è già finita, ma come?

Non dovrebbe stupirvi, a questo punto, sapere che Gonzalez lascia il calcio a 41 anni. Come se l’amore per il calcio fosse (da sempre) più forte della pigrizia istintiva del corpo, sempre stanco, sempre in ritardo su tutto, a cominciare dagli allenamenti, dalle sedute, persino dalle partite. Insomma, cosa volete aspettarvi da uno che è più conosciuto come Magico che non come Gonzalez. La sua essenza calcistica ha avuto la meglio sul suo nome di famiglia.

Controtendenza anche in Europa

Dopo quel Mundial, si diceva, Gonzalez riceve tante di quelle offerte da far girare il capo a lui come alla sua famiglia. L’Europa lo chiama, e ha l’accento francese. Tra le tante squadre che lo vogliono, è il Paris Saint Germain – non ancora quello degli sceicchi, certo – a farsi sotto. Chi mai rifiuterebbe tanti soldi, una città così bella e un posto tanto incantevole, dove poter finalmente consacrarsi dinnanzi alla platea europea? Pochi, forse nessuno, almeno nel momento di carriera in cui Gonzalez si trova. Eppure, Gonzalez rifiuta.

«Cosa ci vado a fare io a Parigi? È una città troppo grande e poi non so neppure una parola di francese!».

«El Magico» Gonzalez

Ecco, appunto. Detto (non) fatto. Ci sarebbe sempre la Fiorentina, ci sarebbe l’Atletico Madrid. Le squadre più forti d’Europa, le città più belle del mondo, lo reclamano.

Lui, stupendo tutti, stupendo noi stessi nel ricordo di questa scelta, sceglie il Cadice. Cadiz è un’antica città portuale situata nel sud-ovest della Spagna. Lo spagnolo, lingua madre del Magico, gli permette di non avere problemi nell’apprendimento. Il clima, leggero, quasi sempre baciato dal sole, lambito poi dal mare della regione andalusa, sono per lui tutti fattori assolutamente decisivi. Ricordiamolo: il Cadice gioca in Segunda Division. Ma cosa può mai importargliene ad uno che nella vita non cerca l’arte né una parte, ma esser arte senza arte né parte.

Se ne frega, El Magico, della celebrità. Dei grandi riflettori. Cadice è il luogo perfetto al momento perfetto. Otto stagioni condite di poche, ma splendenti, finalizzazioni, lo consacrano al calcio europeo come uno dei più grandi amori perduti della storia del calcio. La seconda stagione a Cadice, pensate, dopo aver portato il Cadiz in prima divisione, segna addirittura 14 reti, arrivando terzo nella classifica del Pichichi. Lui, che goleador proprio non era, riesce però in una magia che solo i grandi maghi rendono invisibile: far credere a chi ne guarda i trucchi che quelli non siano trucchi.

La sua corsa è slanciata, il suo passo è insieme felpato e violento, ma il suo tocco di palla è senza eguali: spesso d’esterno, destro-sinistro, più volentieri destro, tacco, doppio-passo, sombrero, cucchiaio – realizza un’altissima percentuale di reti con questo fondamentale – tiro a giro, testa, croce e delizia di un calcio inesistente perché magico.

Un’estate, siamo nel 1984 – quella successiva al terzo posto nella classifica dei marcatori, anno in cui però il Cadice retrocede in Segunda –, il Barcellona decide di portarselo dietro in tournée, per testarne l’intesa con Maradona. Tutti, o molti, sanno che el pibe de oro ebbe a dire un giorno, dopo che gli fu chiesto chi fosse il più forte tra lui e Pelé: «Gonzalez, El Magico Gonzalez è più forte di me come di Pelé». Pochi sanno un aneddoto che chi scrive deve a Remo Gandolfi.

«Mágico era mejor que yo. Yo vengo del planeta Tierra, él viene de otra galaxia»

DIEGO ARMANDO MARADONA

Nell’hotel in cui risiede il Barcellona di Maradona e Menotti suona l’allarme anti-incendio. Ad un primo momento di panico segue uno stormo di risate. Sono tutti nella hall dell’hotel. Tutti tranne uno. El Magico è rimasto in stanza. Lo vanno a prendere tra la preoccupazione e lo stupore generali. Arrivati, bussano. Niente. Bussano di nuovo. Sarà morto? Quando mai. La porta viene aperta con estrema nonchalance proprio dal Magico, infastidito e in intimo da notte. Dietro di lui, una bella ragazza. La sua giustificazione:

«Io non lascio mai le cose a metà».

«El Magico» Gonzalez