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Nessuna cultura come quella americana ha influenzato i linguaggi, gli stili e gli usi degli europei dal dopoguerra ad oggi. È accaduto con la musica e le arti, nel modo di fare scienza – si pensi solo ai cosiddetti metodi logico-analitici di stampo anglo-americano –, nella moda, nel pensare lo sport. Fino a poco tempo fa, però, non tutti gli sport guardavano a quei metodi con lo stesso interesse. Se nel basket, ad esempio, l’analisi statistica e matematica propria dell’universo NBA ha finito per influenzare quello europeo, nel calcio l’introduzione di certi metodi ha a lungo incontrato una certa reticenza – la quale, peraltro, resiste ancora oggi anche ad alti livelli.

È da questa serie di considerazioni che dobbiamo adesso porci una domanda: a cosa serve, se serve, il direttore sportivo?

Il diesse nel calcio

La tecnica, infatti, come già suggeriva Heidegger negli anni Quaranta del Novecento, non è uno strumento, ma è un modo di essere dell’essere che chiamiamo ‘uomo’. È antichissima, e ha radici ben più profonde della semplice e per certi versi banale introduzione nella quotidianità di ‘strumenti tecnologici’, quelli usati ad esempio dagli allenatori o dalle dirigenze per studiare, prevedere, curare la salute della propria squadra. La sensazione, almeno dall’esterno, è che le società che hanno deciso di puntare sulla statistica e sul calcolo, sugli algoritmi e la matematica, a discapito dell’intuito o dell’esperienza del ds in carne ed ossa, operano in un certo modo soprattutto per il portato culturale che hanno alle spalle – tradotto: quasi tutte le proprietà americane utilizzano questo tipo di sistema, in quando esso è proprio della cultura sportiva americana.

Eppure le ragioni tecniche, quando parliamo di pallone, non sono mai certificabili a priori ma sempre a posteriori. Se ci pensate, in fondo, è il bello e il proprium del calcio: è sempre il campo a parlare, al di là di ogni pronostico (previsione analitica).

Stressando questa concezione, arriviamo così a quella figura di direttore sportivo ‘classica’, il mestierante o meglio l’artigiano che tasta, testa, tocca, taglia e cuce secondo i propri studi certo, ma facendosi guidare soprattutto dall’istinto del predatore di talenti. Chi incarna questa tipologia di direttore sportivo è senza dubbio Walter Sabatini, forse non a caso attualmente senza lavoro: «Non sono contro la scienza, la modernità, ammiro la logica, ma se a dettare le scelte del mio lavoro è un programma, un software che tratta gli uomini come numeri e come pezzi di ricambio non ci sto. Non si tratta di lottare contro Big Data o il Grande Fratello, i numeri sono utili, bisogna tenerne conto, ma l’intelligenza artificiale applicata al calcio ha bisogno di mediazioni. Se devo comprare qualcuno e sbilanciarmi deve poter contare anche il mio occhio e la mia riflessione. Uno sciamano sa, per altre vie».

Un nuovo corso?

Una posizione manifestamente opposta a questa è senz’altro quella sposata dalla dirigenza RedBird del Milan – la cui proprietà, un fondo più che una persona (Gerry Cardinale), già la dice lunga sul modo di pensare lo sport (inteso come business). Qui i sentimenti scompaiono, l’aleph di cui parla Sabatini citando Borges viene offuscato dalla rigidità del metodo moneyball, ciò che ha spinto la dirigenza rossonera capitanata da Scaroni a disfarsi senza troppi problemi di Paolo Maldini e Frederic Massara – che pure avevano fatto un discreto lavoro, riportando il Milan in Champions e allo Scudetto dopo tanti anni. Scaroni, spiegando i motivi dell’addio, ha detto che «al Milan si lavora in team, Maldini era un po’ a disagio», ma questa frase dice molto poco sui reali perché del divorzio. Meglio ha parlato, a nostro avviso, pur se con toni eccessivi, Dejan Savicevic, ex leggenda del Milan e compagno di squadra di Maldini: «Gli americani non capiscono di calcio, vivono in un altro modo questo sport e anche la vita. Credono che il calcio sia come la NBA e non è così».

La sentenza è forte, un po’ troppo, ma coglie un punto importante in tutto il nostro discorso. Il basket americano (NBA) è il migliore al mondo, ed è giusto che certi metodi vengano ripresi da quello europeo, sicuramente inferiore per talento, risorse economiche ed espansione mediatica. Ma il calcio europeo, e persino quello sudamericano tanto amato dai Sabatini, non hanno mai avuto bisogno di ‘modelli’ alternativi per funzionare meglio: sono già, e ancora, i modelli da seguire. Nel calcio, poi, entrano in gioco tante altre dinamiche che non si ritrovano in sport come l’NBA o il Golf, ad esempio il tifo, la cultura sportiva che si respira in città e nello stadio al momento della partita, elementi per i quali un calciatore può giocare meglio o peggio a prescindere dai dati fisici, psicologici, comportamentali ai quali viene sottoposto dai dati matematici. Dopo l’addio di Maldini, appunto, Ancelotti ha ricordato proprio questo aspetto: «Per conservare la storia ai massimi livelli, va tutelata la memoria del passato. Quello che è successo con Maldini dimostra una mancanza di cultura storica, di rispetto della tradizione milanista». Un discorso del genere in America non avrebbe senso.

I direttori sportivi in Italia

In Italia, e più in generale in Europa, la figura del direttore sportivo è ancora fondamentale. Società come Lazio e Napoli (entrambe in Champions) che hanno cambiato entrambi i direttori sportivi (il Napoli ha sostituito Giuntoli, passato alla Juventus, con il meno quotato Meluso) sono attualmente ferme sul mercato. Quando Gasperini litigò con Sartori (ora al Bologna) due anni fa, in Italia non si parlò d’altro per settimane: un segno della riconoscenza che il mondo calcistico aveva riservato al ‘modello Atalanta’, dove l’allenatore (bravissimo) fa giocare i talenti scoperti da uno staff di persone estremamente competenti e senza le quali il suddetto ‘modello’ non esisterebbe affatto. I Friedkin, che avevano necessità di rispettare i parametri imposti dal FPF, hanno puntato su Tiago Pinto per la capacità del portoghese – già dai tempi del Benfica – di vendere (bene) gli elementi ‘di troppo’ della rosa. Idem Marotta con l’Inter – anche se in quest’ultimo caso, abbiamo a che fare con la compresenza di un altro uomo-mercato come Ausilio. Lo stesso sopracitato Meluso, nuovo ds del Napoli, era stato esonerato dallo Spezia lo scorso anno dopo l’ascesa al vertice societario della famiglia Platek, americana, che non a caso basa il proprio mercato su modelli statistici.

Potremmo andare avanti all’infinito, citando Marino dell’Udinese o Corvino del Lecce – che con un mercato di sole intuizioni extra-nazionali ha vinto il campionato primavera italiano e parteciperà alla prossima Youth League. Insomma, la figura del ds serve eccome, ma va contestualizzata. In una società di stampo ‘nazionale’ è probabilmente più importante di quanto lo sia – e sarà in futuro – in una di tipo ‘internazionale’, che ha in mente modelli economici di un altro tipo, primariamente legati al marketing anziché ai risultati sportivi. Rimane il fatto che una figura del genere, nel calcio, serve tantissimo soprattutto a livello umano, per uno sport che è ancora profondamente umano. Ciò non toglie che il Milan, ad esempio, abbia fatto finora un grande calciomercato, almeno a livello teorico. Ecco, però, nel calcio la teoria non è semplicemente sottoposta alla pratica: è la pratica a determinare la teoria. E sarà il campo, quindi, a determinare ancora una volta il ruolo del direttore sportivo. Vale per chi ne ha uno, o più d’uno, per chi non ne ha alcuno o ha scelto di non averne.

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