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Nella storia di ogni sport, sono presenti una miriade di personaggi che hanno rivoluzionato con le loro idee e le dimostrazioni, ognuno nel loro campo, il percorso che ha sparigliato le carte in tavola.

Tex Winter, nella pallacanestro, è senza dubbio uno di quelli. 

Il santone dei capisaldi della pallacanestro moderna

Prima di passare in rassegna e dare una definizione articolata di ciò che ha inventato Tex Winter, occorre inquadrare periodo storico e genesi di un uomo che rimarrà nella storia come uno dei santoni della pallacanestro moderna.

Tex Winter nasce a Wellington, Texas, nell’ormai lontano 25 febbraio del 1922. 

Un periodo storico che ha preceduto l’età dell’oro del basket statunitense, quello che ha creato i presupposti per un successo planetario che ci ha portato fino ai giorni nostri. 

Laureato alla University of Southern California a 25 anni, Winter scelse praticamente da subito di intraprendere la carriera di allenatore di pallacanestro, senza passare da quella di giocatore, come avrebbero fatto poi tantissimi suoi discepoli. 

Cominciò da assistente a Jack Gardnes alla Kansas University, per poi rimanere sulle panchine delle squadre più importanti per i successivi 57 anni, prima di lasciare questa terra in quel di Mahattan nell’ottobre del 2018. 

Ci volle tempo

A Winter si deve non tanto l’invenzione del triangolo offensivo da utilizzare come schema di base degli attacchi delle squadre più o meno attrezzate per vincere i campionati nazionali americani di questo nobile sport, quanto il suo miglioramento rispetto alle prime idee lanciate da Sam Barry, membro della Basketball Hall of Fame. 

La carriera di Winter, soprattutto nella parte iniziale, è legata a doppio filo con il basket universitario, dove l’idea di suddividere la metà campo offensivo in tutta una serie di triangoli formati dai 5 giocatori che occupavano in lungo e in largo tutta l’area di gioco. 

Il suo percorso nel basket professionistico, parte nel 1985 con i Chicago Bulls, come assistente di Phil Jackson, altro visionario della strategia cestistica di fine millennio. 

Il compito di Winter fu quello di affinare la tecnica del triangolo offensivo ad un livello più nobile rispetto a quello esercitato dagli studenti universitari. 

L’idea di fondo era quella di condividere la palla in maniera armonica tra tutti i giocatori, esaltando e non soffocando, a suo parere, le caratteristiche dei giocatori più tecnici. 

Non erano della stessa idea due mostri sacri della pallacanestro di allora. 

Michael Jordan, prima di diventarne uno dei protagonisti più importanti, addirittura lo ridicolizzò e Kobe Bryant, nel 2001, lo bollò così: “il triangolo vince i campionati a giugno, ma, dicembre, gennaio, è noioso da morire“.

Alcuni anni più tardi Bryant fece una sorta di revisionismo delle sue stesse idee, dichiarando le seguenti parole: “L’ho detto un milione di volte prima e lo dirò di nuovo: non ho mai avuto problemi con il triangolo. In realtà lo amo. Si basa sul movimento della palla, sulla spaziatura, sulla penetrazione”.

Come si giocava

Ad una prima analisi, la visione del triangolo offensivo, sembrerebbe tutto sommato semplice da attuare, ma il fine che si poneva, usiamo l’imperfetto perché al giorno d’oggi si gioca ancora, ma con variabili decisamente più moderne, era quello di sovraccaricare una delle due parti del campo, con la formazione di triangoli delineati che avrebbero dovuto originare passaggi ben congegnati atti a liberare un tiratore, soprattutto dopo il riconoscimento delle difficoltà della difesa che, gioco forza, si sarebbero verificate. 

La differenza con i decenni precedenti, durante i quali la Triangle Offense non si sapeva nemmeno cosa fosse, era quella che giocatori dominanti come Wilt Chamberlain e Bill Russell, si facevano semplicemente strada da soli. 

Fino alla rivoluzione di Winter e Jackson tra Chicago e Los Angeles, infatti, erano gli isolamenti a mettere in condizione il giocatore migliore di una squadra per trovare un tiro pulito, il meno possibile contestato dalla difesa. 

Il triangolo, invece, diede inizio a tutta quella ridda di movimenti, come quello della “palla fuori”, del “taglio” e del “pick and roll”, che ancora oggi rappresentano la maggior parte degli attacchi di alcune delle squadre NBA. 

Rodman giocatore perfetto

Winter rivelò in un’intervista, che Denis Rodman era il suo giocatore preferito per praticare il triangolo offensivo in NBA. 

A differenza di ciò che si può pensare, “Il verme”, era il giocatore che meglio si adattava a questo sistema di gioco, ma non tanto per le sue caratteristiche fisiche, o tecniche, quanto per l’interessamento alla materia del centro dei Bulls di quegli anni. 

In più di un’occasione, Rodman, bussò alla porta di Winter durante le permanenze in albergo tra una partita e l’altra, semplicemente per chiedere di vedere un VHS in più e capire meglio i suoi movimenti. 

Winter, a quei tempi, disse di lui: “è disposto ad ascoltare ed è molto ricettivo, soprattutto sotto l’aspetto del coaching. Ed è stato divertente lavorare con lui sul parquet. Se gli dici: -Dennis, non puoi fare questo e non puoi fare quello-, beh, allora probabilmente non sarebbe stato nemmeno lontanamente il giocatore di basket che è”

Il maniacale senso del dovere

Winter fu un allenatore a tutto tondo, che dedicò completamente la sua vita al lavoro. 

Sono innumerevoli gli episodi che denotano il suo amore, quasi morboso e certamente maniacale, per il dettaglio. 

Per questo motivo, soprattutto all’inizio, era detestato dai suoi giocatori, per poi, alla fine, entrare in ognuno dei loro cuori. 

Un intransigente stakanovista che rimase in campo fino a pochi giorni prima della sua morte e che ha lasciato un vuoto incolmabile tra gli appassionati e gli addetti ai lavori di tutto il mondo.