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Carpire segreti di uno sport come il basket, non è esattamente impresa facile, anche e soprattutto perché la materia è vasta e semmai vi venisse in testa di diventare allenatori di pallacanestro, la prima cosa a cui dovrete pensare è prepararvi a sacrificare un buon numero delle ore del vostro tempo a favore dello studio e, soprattutto, dell’aggiornamento costante.

L’aggiornamento, sì, perché, un po’ come tutte quelle discipline sportive che hanno vissuto una veloce trasformazione nel corso degli anni, ciò che gravita attorno si deve adattare a tutta una serie di parametri che analizzeremo più avanti e che, gioco forza, necessitano di innovazioni atte a performare le prestazioni di atleti singoli e collettivo.

Il basket e il nuovo modo di concepirlo

Tra gli sport che più si sono trasformati alla luce di tali cambiamenti, il basket è certamente quello che ha palesato le diversificazioni più repentine nell’arco dell’ultimo quarantennio. 

La summa di questo cambiamento epocale, è stata rappresentata dal quinquennio di vittorie dei Golden State Warriors che, grazie alle sapienti mani di un coach visionario come Steve Kerr, ha dimostrato a tutto il mondo che il binomio vittoria/centimetri, può essere totalmente sacrificato a favore di una generale assenza di ruoli, Kilogrammi e mera difesa del ferro. 

Ma bisogna tornare indietro nel tempo per capire una certa evoluzione di quello che oggi viene, ormai in modo desueto, chiamato come “Small Ball”.

Intanto va subito data una nuova definizione di Small Ball, che se prima faceva capo ad una semplice distinzione tra un quintetto “tradizionale” e uno “innovativo” in virtù della possanza fisica dei protagonisti, oggi deve tenere conto di un altro fattore, ancor più decisivo, la scomparsa dei ruoli. 

La scomparsa del centro tradizionale

Se avete mai provato ad approcciarvi ad una disciplina come il Fanta Basket negli ultimi due decenni, vi sarete senza dubbio resi conto che comincia ad essere difficile reclutare quelli che un tempo venivano chiamati “centri”. 

Oggi come oggi, in una lega come quella della NBA gli esempi non si contano ormai più, la figura del centro è assimilabile a quella di un animale in via di estinzione come il panda. 

Se poi vogliamo annoverare tra queste figure i famosi pivottoni stile anni ’80, allora l’impresa diventa quasi mitologia, visto che per contare i centroni da 2,20, lenti, macchinosi, smaniosi di catturare 25 rimbalzi a partita e rimpolpare le proprie stats per firmare un contrattone per la stagione successiva, sono sufficienti le dita di una mano.

Lo Small Ball dalle origini ai giorni nostri

Diventa altrettanto difficile e nebuloso tracciare una linea immaginaria che ci faccia da stella polare per trovare il nostro Nord. 

Il concetto dal quale tutto dovrebbe partire, è rappresentato dal fine che lo Small Ball si propone, quello di rendere infernale il ritmo nella fase offensiva per poi allungare la difesa mantenendo comunque dei tiratori extra. 

La chiave di questo doppio scopo, è la possibilità di avere nei propri quintetti, atleti che possano agire da veri e propri jolly, come si direbbe nel calcio, che possano, cioè, fagocitare in un solo ruolo, quelli che prima occupavano ben due caselle, l’ala forte e il centro, o, se vi piace la NBA, “Power Forward” e “Center”. 

Il risultato finale, nel caso in cui venga ricercato da interpreti del mestiere, ovviamente crea dividendi, ma il paradigma sul quale gira tutto il cucuzzaro, non è mai assicurato, proprio perché le dinamiche che lo ammaestrano, devono assumere i santi crismi della perfezione.

Mike D’Antoni e il suo purismo

Il caso più eclatante che torna in mente a chi vi scrive, è quello di Mike D’Antoni, celestiale playmaker di una delle squadre più spettacolari mai viste in Italia, quella Milano allenata da coach Dan Peterson. 

D’Antoni fece di quegli anni una sorta di palestra pratica che poi diventò il mantra della sua carriera da allenatore, prima della stessa Milano, poi con il culmine massimo vissuto in quel di Phoenix, dove Steve Nash si mise a capo di una banda di scalmanati orfani di un vero e proprio centro. 

I più attenti, obietteranno che durante la primissima parte dell’avventura di D’Antoni come head coach in Arizona, il centro c’era e come, rispondeva al nome di Amar’e Stoudmire e in alcuni dei giochi offensivi di D’Antoni, da tale era trattato. 

Vero, anche se in parte.

In alcuni degli almanacchi storici della NBA, a seconda delle stagioni, di fianco al nome del buon Amar’e, la dicitura “C” viene sostituita con “PF”, a sottolineare il fatto che una confusione “di genere” cominciava ad albergare già da allora. 

E in effetti, dentro la mente di D’Antoni, l’epurazione del Centro tradizionale cominciava a stazionare con insistenza, anche se una mano d’aiuto decisiva arrivò quando Stoudmire si infortunò al ginocchio all’inizio della stagione 2005/2006, una stagione che lo vide protagonista in sole tre occasioni, visto che al suo rientro, a marzo, di ginocchio si ruppe pure l’altro. 

Fu il momento di Boris Diaw, allora rampante 23enne, che diede ufficialmente il via a quella che poi sarà, con conformazioni fisiche e caratteristiche tecniche diverse, la dinastia dei lunghi atipici. 

I Suns di quegli anni fecero scuola e D’Antoni fece capire a tutti che le dimensioni, nel basket, possono non contare. 

Nash vinse per ben due volte di seguito il titolo di MVP, il titolo non fu mai vinto da quella che è ancora oggi considerata una delle squadre più divertenti della storia della NBA, ma solo perché Popovich e i suoi Spurs avevano già trovato l’alchimia perfetta che ruotava attorno a un certo Tim Duncan, altro centro atipico, inserito, però, in un contesto un po’ più tradizionale. A Ovest all’epoca, non si poteva passare e dove non arrivava San Antonio (Finali di Conference 2005) arrivava Dallas (Finali di Conference 2006)…

Rockets dalle stelle alle stalle

L’estremismo di d’Antoni non ottenne gli stessi risultati con l’avanzare della sua carriera, a dimostrazione del fatto che non vi è una risposta univoca a tutte le stagioni e il concetto di squadra non ha una valenza fissa, nemmeno se c’è materiale umano a sufficienza per praticare una strategia che negli anni passati si è rivelata vincente. 

D’Antoni approda ai Knicks e i 4 anni da capo allenatore non sono esaltanti, visto che sono 167 le sconfitte contro le 121 vittorie.

A Los Angeles sponda Lakers le cose vanno pure peggio e dopo una stagione e mezzo lascia, anche a causa di una sorta di minestra riscaldata andata a male per via di uno Steve Nash ormai agli sgoccioli. 

A Houston arriva nel 2016, estremizzando ancora di più il concetto di small ball, toccando quote elevatissime nei primi due anni, in cui i protagonisti allargano il campo in maniera ossessiva e, anche grazie alla presenza di un talento come James Harden, MVP 2018, diventa una delle squadre che tirano di più e meglio da 3 punti. 

Nonostante i playoff raggiunti in tutte le occasioni, il modulo proposto da D’Antoni viene vivisezionato e macellato dagli addetti ai lavori, tutti propensi a dare poco credito ad una squadra che non sarebbe lì se non grazie al “Barba” e al suo micidiale tiro da tre. 

Il tutto si amplifica con il sempre minor minutaggio offerto a Clint Capela, unico vero centro del roster, che viene utilizzato a singhiozzo e solo per giocare gli infiniti pick & roll con Harden. 

La difesa offre in effetti prestazioni al limite dell’indecenza e Houston, nonostante parta sempre con la corona di Contender sul capo, non giocherà mai una partita di Finals. 

I Warriors

A chi invece la ciambella è riuscita col buco, è stato certamente Steve Kerr. 

A questo proposito fu geniale la rivoluzione tattica dell’allenatore dei Warriors nelle Finals del 2015 contro Cleveland che a quel punto della serie erano avanti per 2-1.

Kerr spostò Draymond Green facendolo giocare da falso centro, inserendo Igoudala da Power Forward, occupando un ulteriore posto sul perimetro, visto che il peggiore dei tiratori di quel quintetto era proprio Igoudala, il che è tutto dire. 

Gli altri effettivi erano Harrison Barnes, Stephen Curry e Klay Thompson, una squadretta in procinto di accogliere Kevin Durant al posto di Barnes… 

Quella mossa in pratica neutralizzò il lavoro difensivo di un centro macchinoso come Timofey Mozgov che non sapeva letteralmente che pesci pigliare, visto che arrivavano tiri da tutte le parti e gli adeguamenti delle Ali non bastavano più, con Green autentica scheggia impazzita dell’attacco di Golden State. 

Da allora cominciò in NBA una piccola rivoluzione di pensiero che si mosse in quella direzione. 

Hibbert fu scaricato da Indiana a favore di un giocatore più duttile come Paul George, Washington, non ottenendo in verità gli stessi risultati, fece carte false per prendere Jared Dudley, oggi ai Lakers, che sembrava poter ricoprire almeno sulla carta il ruolo di Draymond Green, ma la lista, come vedremo tra un po’, comincia ad essere lunghetta.

Tale rivoluzione di pensiero è continuata anche negli anni a venire, visto che anche il materiale umano a disposizione delle squadre, è diventato decisamente più congruo. 

Basti pensare ai Campioni della stagione 2020/21, che hanno giocato senza un centro per tutta la stagione.

Bella forza, direbbe il lettore, hai Antetokounmpo che fa 4 ruoli. Certo, ma è qui che casca il palco delle squadre che non si sono adeguate, o fai così o impazzisci soprattutto sul lato difensivo del campo. L’esempio è offerto dalla presenza di Brook Lopez, che difficilmente troveremo partire da, scegliete voi, post alto o basso…

Towns è un altro prototipo che farebbe comodo alle squadre da titolo che vogliono proporre lo Small Ball, discreto tiratore dalla lunga distanza, ottimo bloccante, anche se disastroso in difesa. 

Ma l’elenco è lungo, Adebayo a Miami, Myles Turner a Indiana, Jokic per estremizzare il concetto, a Denver, l’idea Porzingis, non andata esattamente poi a buon fine, ma ancora in via di sviluppo, Zion Williamson, prima scelta a New Orleans, e così via.

Come avrete capito, il concetto, ma soprattutto l’estensione del significato originale di Small Ball, si è trasformato di pari passo all’evoluzione della pallacanestro stessa, portandolo a staccarsi dal suo legame intrinseco con la pezzatura dei giocatori, avvicinandolo molto di più alla diversificazione dei ruoli in campo, che non sono più gli stessi di 40 anni fa e che, in estrema analisi, non esistono praticamente più.  

La strada è segnata, i preparatori dei College e ancora prima delle High School statunitensi, stanno lavorando in questo senso. Chi rimane indietro è perduto.