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“Io c’ero”. Ti giravi intorno, in quella Roma ancora fredda di metà aprile, e le persone avevano negli occhi ancora il volto di Kostas Manolas. La corsa in avanti, i tre passi per saltare, il colpo di testa in torsione e – pem! – in un angolino della porta difesa da Ter Stegen il riscatto del popolo più grande della storia. Non del calcio, ma dell’umanità in generale.

Roma capoccia(ta) e Roma in visibilio. Roma sotto forma di luce perpetua e sogno motorizzato: non c’era un singolo tifoso, sugli spalti dell’Olimpico, che per un attimo non abbia creduto all’impossibile. Del resto, quella era il Barcellona imbattuto, in Champions e nella Liga. Aveva la miglior difesa del torneo e le remuntade le faceva e mica le subiva. Dopo il 4-1 dell’andata, ai giallorossi servivano tre reti e non subirne (contro Messi e Suarez) per ipotecare una semifinale tanto storica quanto inattesa. Soprattutto, insperata.

La preparazione

Ricordate bene la data: si fa presto storia. Anche perché, se non è l’impresa di sempre, in casa giallorossa non si è andati spesso oltre. Anzi. Dunque, il Barcellona e cioè quel Barcellona, delle prime crepe tra Messi e Valverde, degli screzi (e qui non certo i primi) tra la vecchia dirigenza del Barça e lo stesso capitano, numero dieci, giocatore più forte della storia del club e forse del calcio. Comunque solido, lanciato verso la vittoria, con un deficit semmai d’attenzione ma qualitativamente sempre i primi della classe.

E infatti all’andata è un rullo compressore, i giallorossi vengono triturati dagli scambi stretti degli spagnoli e dalla velocità di pensiero e d’azione di un centrocampo come nessun altro: un 4-1 che assomiglia a un incubo, arrivato con gli autogol di De Rossi e Manolas, poi il colpo di Piqué. Quando Dzeko aveva provato a riaprire i giochi, il colpo di pistolero Suarez. Niente, insomma. All’Olimpico c’era voglia di lottare e allo stesso tempo il timore di ritrovare la passerella per i più forti. Comunque, per Messi e compagnia stratosferica, i biglietti vanno a ruba e il cuore torna a battere forte. ‘Non succede, ma se succede…’. E succederà.

Come? Con una settimana ‘scientifica’, come racconterà in seguito Di Francesco. Il protagonista nascosto della storia è proprio lui, uno dei tecnici più amati e (più) dolorosamente salutati al termine di un ciclo che avrebbe potuto avere tanti altri risvolti se solo non avesse avuto tutti questi ‘se’. Comunque, la sua rivoluzione era partita nel giorno stesso in cui la batosta subita con il Barcellona al Camp Nou lo posizionava rigidamente sulla ghigliottina dell’opinione pubblica. Il primo passo: difesa a tre.

L’intuizione di Di Francesco

Kolarov e Florenzi avrebbero giocato a tutta fascia; Schick davanti e Dzeko al suo fianco. Valverde, invece, aveva confermato in blocco l’undici trionfante di una settimana prima: per la presunta passerella, gli applausi iniziali erano già finiti. Tutti per Iniesta, che aveva il compito di entrare più spesso dentro il campo per dare parità numerica ai suoi.

Dopo tre minuti, capita allora che Messi trovi Sergi Roberto: è il primo brivido e Alisson risponde presente. Sembra il preludio dell’attacco infinito del Barça, ma è un brivido passeggero: al 6′, De Rossi trova Dzeko in verticale. Crolla Jordi Alba e il bosniaco supera persino le incertezze di Umtiti e Ter Stegen: 1-0! E la Roma trova coraggio, oltre a tante occasioni. Nainggolan, piazzato a legare attacco e centrocampo, fa bello, cattivo e cattivissimo tempo. Fazio è il regista arretrato se il primo pressing ruba il tempo a De Rossi. E Schick, beh, Schick è in fiducia. E le qualità non mancano certamente.

Proprio il ceco ha un paio di buone occasioni, stavolta di testa. Al 32′, Piqué salva tutto in scivolata sul centravanti; 5 minuti più tardi Ter Stegen miracoloso su Dzeko. Sembra un pugile suonato, il Barcellona, a metà del primo round. Prova a tenersi in piedi finché ne ha, finché può. Finché sente la fiamma della vita ardere. Dzeko soffia forte al 12′ del secondo tempo: difende da maestro un pallone del Ninja e Piqué lo abbatte. Dal dischetto c’è De Rossi: all’andata aveva segnato nella sua porta, non sbaglia in quella giusta. Inutile aggiungerlo, ma allo stesso tempo è doveroso: l’Olimpico è una bolgia.

Gli occhi di Manolas

Oltre trenta minuti e il sogno della Roma è a portata di gol. L’impresa è un respiro collettivo ed è l’immagine di un gruppo incredulo e allo stesso tempo convinto di poter cambiare le proprie sorti. O almeno quelle già scritte da tutti, ma non da loro. Ci prova Strootman, ci prova Nainggolan, De Rossi al 24′ sfiora la doppietta. E dopo una parata fondamentale di Ter Stegen su El Shaarawy, la rete dell’impresa arriva da calcio d’angolo: Under, mancino in mezzo, Manolas che si stacca dalla marcatura e colpisce divinamente.

L’urlo del difensore greco è in grado di sovrastare i sessantamila dell’Olimpico: nel trionfo d’emozione, il suo sguardo ricorda quello di Tardelli in Spagna, di Grosso in Germania, di Montella nel giorno dello scudetto giallorosso. Ecco, un’emozione così forte, il popolo romanista non lo provava da quasi vent’anni.

Un’astinenza profondissima, spezzata dalla versione più ‘difranceschiana‘ di sempre. Con pressing asfissiante e giocate semplici, ma veloci. Tutti a eseguire il copione, per uno spettacolo realizzato con il più estremo dei successi.

A proposito di spettacolo: più di ogni altro video, emozione, ricordo, nella storia resterà la reazione di Carlo Verdone. Lacrime e gioia, fa il giro dei social: “È un sogno, è un sogno! Nun ce credevo! Ma lui ci credeva, Nerone ci credeva!”. Al Messaggero, poi racconterà: “All’inizio ero così distaccato che ho preso la chitarra e ho cominciato a cercare gli accordi di California Dreamin dei The Mamas & the Papas, buttando l’occhio ogni tanto. Poi però, dopo sei minuti, quello segna. Al goal di De Rossi ho buttato via la chitarra e mi sono acceso una sigaretta. Quando è arrivato il terzo goal ho fatto un salto cosi alto che ho sentito il cuore che mi andava a centoventi. Dico sul serio, ho pensato di rimanerci”. Per fortuna, è ancora tra noi.