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C’è una foto degli ultimi Europei, data undici giugno, che racconta alla perfezione Fabio Caressa: camicia bianca, impeccabile, sguardo stralunato e stravolto dalla tensione, poggia il braccio destro sulla spalla di Beppe Bergomi, che proprio da “spalla” – ma in un altro senso – è partito per poi diventare l’altra parte del racconto, la frase giusta al momento giusto.

Ecco, in quell’immagine, scattata poco prima di vedere l’Italia di Mancini al debutto contro la Turchia, c’è ancora la voglia di raccontare, divulgare, farlo però con il proprio marchio. C’è l’entusiasmo, benzina necessaria per suscitare reazioni, anche chimiche, su un quotidiano che prima o poi diventa stantio per tutti.

Caressa è partito esattamente con lo stesso entusiasmo, per quest’Europeo: sarà stata la ferita del Mondiale in Russia, sarà stata la bellezza suscitata e ovviamente da esaltare degli Azzurri. Sarà stata anche quell’atmosfera da “grande occasione”, che un narratore professionista riesce a cogliere al volo. In ogni caso, per la voce inconfondibile dei mondiali del 2006, potrebbe essere un’altra Germania. O meglio, un’altra primavera.

Come ha cambiato la telecronaca

Le generazioni successive di telecronisti ringraziano una strada tracciata proprio negli anni in cui Caressa, così come i vari Compagnoni, Marianella, Piccinini, diventavano grandi insieme alla Serie A più bella di tutti i tempi. Ogni stadio, un campione. E ogni campione, un’emozione. Ecco perché la grande svolta è stata accomunare due aspetti sostanziali del racconto sportivo: oltre a informare, dare cioè le direttive giuste per comprendere al meglio la partita, serviva lavorare sulla parte emotiva di chi ascolta. Lasciarsi andare. Coinvolgere totalmente lo spettatore.

Una rivoluzione, che ha sempre suscitato reazioni contrastanti: Caressa, negli anni, è stato avvicinato a qualsiasi squadra italiana. Per certi versi è una vittoria. Ma è semplicemente un rischio del mestiere, l’importante è essere presi sul serio, non essere vittima della forzatura stessa.

In un’intervista a La Stampa, il giornalista aveva raccontato questo particolare espediente: “Le critiche? Non è importante perché tu stai lavorando sulla parte più profonda delle emozioni. Se faccio Inter-Barcellona, spingo molto sull’Inter e se mi diranno che ho esagerato, non è un problema perché quella partita resterà per sempre nella memoria degli interisti, non degli juventini. Ovviamente quando allo stadio non abbiamo avuto più pubblico ho dovuto cambiare l’approccio alla parte emotiva e abbiamo iniziato a fare ascoltare i rumori del campo”.

Una frase ‘cult’, in tempi di pandemia, è stato il suo “immergiamoci“. Una parola chiave per indicare al tecnico audio che avrebbe dovuto alzare i rumori del campo. E un altro tentativo di avvicinare quel mondo dello stadio, impareggiabile per mille versi, a chi guarda la partita sul divano, davanti alla televisione, magari non proprio con un dolby surround ad accompagnare.

In ogni caso, questo costante avvicinarsi allo spettatore, l’ambizione di entrare nella storia del racconto sportivo, e riuscirci anche solo a 39 anni, è stato sempre un percorso netto. Che ha cambiato nel profondo il modo di rapportarsi al pubblico e di creare materialmente la narrazione di una partita. Un esempio? Provate a ripescare le telecronache di Martellini. O del vero ibrido ‘telecronistico’, Bruno Pizzul. Storie completamente differenti.

Il rito dell’esultanza

Storie differenti per ritmo, per velocità d’esecuzione. Se il calcio cambia, a cambiare è anche il telecronista. Un aspetto che spesso si tende a mettere in secondo piano è il tempo a disposizione di un telecronista per rendere memorabile un gol, un’azione, un istante. Dopo una rete? Ci va una frase. Dopo un dribbling? Ci va un’espressione. Dopo la vittoria della Coppa del Mondo? Ci va una frase per la storia. Con il sorriso, oggi, ricordiamo la voce tremante di Caressa dopo la vittoria di Berlino: l’aveva preparata mille volte, pure con Bergomi. Eppure l’emozione tradì lo zio, che aspettava un segnale. Risultato: Fabio iniziò da solo, pronunciando “Campioni del Mondo” per quattro volte; Bergomi lo seguì nelle ultime tre. Senza filtro, addirittura più bello.

Caressa è famoso anche per il modo di “celebrare” una rete, che sia campionato o nazionale. Specialmente nei primi anni, urlare nome e cognome del marcatore diventava un esercizio travolgente.

Anche negli ultimi europei, soprattutto se è una situazione pulita, non c’è tocco più “caressiano” di questo. Il gol di Barella contro il Belgio, di Insigne nella stessa partita. Ancora Locatelli contro la Svizzera. Un marchio di fabbrica, servito anche per costruirsi un personaggio da salotto tv. Del resto, il suo lavoro è quello. E la differenza è forse sottilissima. O addirittura inesistente.

Il suo pensiero: “Non credo che ci sia differenza tra l’essere giornalista e personaggio tv, perché è ovvio che lavorando in televisione lo si diventi. In tanti ormai propongono le stesse cose, quindi c’è l’esigenza della brandizzazione del prodotto, devi renderlo fortemente riconoscibile. L’errore è essere ciò che altri si aspettano che tu sia”.

Prese di posizioni nette

Il più seguito, tra i più amati, di certo anche tra i più criticati. Perché dalla passione del 2006 si è passati a un costante attacco mediatico? Va da sé: Caressa, sui social, evita proprio di starci. E non per il partito del ‘occhio non vede, cuore non duole’. Ma perché è uno da opinioni nette. Schiette. Sincere della sua sincerità. Su questo modo di esporsi ci ha costruito uno show televisivo che oggi è seguitissimo, soprattutto tra i più giovani. Che lo trasformano in meme e alle volte in prese in giro, ma che spesso condividono la maniera di razionalizzare il calcio. Di evitare troppe sfumature e di andare dritti al sodo. La coerenza, ecco, alla base: e non è un dettaglio.

Il modus operandi ha certamente contribuito all’amore e odio, ma Caressa resta la voce di tutti. Quella della Nazionale e dei ricordi più belli che tanti conservano pubblicamente nei propri cuori. Euro2020, il percorso netto dell’Italia di Mancini, ce l’ha ricordato più di tante altre volte: in un paese diviso su tutto, persino sulle voci, l’Italia del calcio è ciò che davvero unisce. L’avesse saputo prima Garibaldi, chissà.

L’ha certamente scoperto, riscoperto e compreso Fabio Caressa: sull’onda dei tempi ormai nuovi, ha surfato ed è pure rimasto coerente con la sua priorità. Quella di emozionare. Nome e cognome dopo un gol. Per sempre, come noi, campione del mondo.