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Quando sentiamo parlare di “Valanga Azzurra” la nostra mente ci riporta inevitabilmente a momenti imprescindibili della storia dello sci italiano.

Un termine che nel corso del tempo abbiamo sentito usare (fortunatamente) abbastanza spesso, anche solo per sottolineare momenti in cui un nostro campione cominciava a vincere qualche gara o si esprimeva ai massimi livelli.

Ma senza nulla togliere ai vari Tomba, Ghedina, Compagnoni e Brignone, nulla forse riesce a eguagliare le imprese che prima di loro portarono a coniare questa definizione, che è propria di una generazione di eroi sugli sci che sono riusciti a scrivere pagine memorabili di questo sport e dare alla nazionale italiana una dimensione di prestigio come mai era accaduto.

La prima volta

C’è un punto preciso nel tempo e nello spazio in cui nacque la “Valanga Azzurra”. Il momento è il lunedì del 7 gennaio 1974, il luogo quello delle montagne della Baviera di Berchtesgaden, l’occasione lo Slalom Gigante della Coppa del Mondo.

Una gara che ha profondamente segnato la storia dello sci alpino, visto che per la prima volta in assoluto una sola nazione era riuscita a occupare tutte e cinque le prime posizioni della classifica. Quella nazione era l’Italia e quegli uomini erano Piero Gros, Gustavo Thoeni, Erwin Stricker, Helmuth Schamalzi e Tino Pietrogiovanna.

Eccola, la “Valanga Azzurra”, come li definì per la prima volta Massimo di Marco nel suo resoconto sulla Gazzetta dello Sport in quell’occasione.

Un termine che ovviamente non definiva solo l’impresa storica di quella gara, ma un dominio che la squadra italiana stava avendo da diversi anni tanto da travolgere (appunto) la storica superiorità di nazioni come la Svizzera, l’Austria, la Francia o la Germania che fino a quel momento avevano il monopolio delle vittorie.

Ma se vogliamo entrare nel dettaglio, prima ancora delle vittorie sulle piste innevate di tutto il mondo, ci fu un altro momento topico che diede origine al mito e un altro nome fondamentale in questa storia. Quello di Mario Cotelli.

L’origine del mito: Mario Cotelli

Prima dei successi che negli anni settanta cementeranno il mito della “Valanga Azzurra”, dobbiamo necessariamente fare un passo indietro per capire la reale portata dell’impresa. Lo sci alpino negli anni sessanta è uno sport dominato da francesi, austriaci e svizzeri, con qualche altra nordica bandierina sparsa in qua e in là.

L’Italia è completamente fuori da questo giro, sia in termini tecnici che economici. Se le altre nazioni offrono supporto e assistenza alle loro squadre, da un punto di vista finanziario e di materiali (grazie anche alle aziende del settore che sono i primi sponsor dei vari team). Da noi i pochi atleti che si cimentano a livello professionale sono in balia di loro stessi e non è un caso se nessuno di loro riesce minimamente a competere nemmeno con i primi trenta delle classifiche.

Lo sci nel nostro paese, sta però vivendo uno sviluppo importante, se non altro da un punto di vista di costume. Da sport destinato solo “ai ricchi”, diventa invece un rito più popolare, un vero e proprio fenomeno di massa che porta in qualche modo a ripensare anche al comparto agonistico del settore.

Due i principali meriti di una trasformazione che sarà essenziale per il movimento: il “Trofeo Topolino” e l’entrata in scena di Mario Cotelli.

Il “Trofeo Topolino” era una manifestazione che si proponeva proprio di diffondere la cultura dello sci tra i bambini e i giovanissimi, punto centrale per coltivare le nuove generazioni di sportivi sulla neve. Un successo che porta oltre a una buona visibilità anche la possibilità di scovare sul nascere i nuovi possibili talenti, diventando negli anni sessanta una vera fucina per il settore giovanile.

E qua entra in scena l’elemento fondamentale. Perché a prendersi carico di questo settore giovanile sarà proprio Mario Cotelli, appena uscito dalla Bocconi e pronto a rivoluzionare il sistema di gestione della nazionale azzurra.

Suo il merito infatti non solo di scovare i futuri campioni, ma anche di cambiare in toto quello che era ormai un sistema anacronistico di gestione e di organizzazione. Con lui arrivarono nuovi metodi di allenamento, staff tecnici rinnovati e supporto tecnico per tutti gli atleti.

Per competere con i migliori, era necessario utilizzare le metodologie dei migliori e soprattutto avere quanto meno gli stessi mezzi di preparazione. E così fece, coltivando nel mentre una nuova generazione di fenomeni che stava pian piano prendendo forma tra le sue sapienti mani di allenatore, prima della nazionale B e poi di quella A.

Le prime vittorie azzurre

Nei primi tre anni di Coppa del Mondo, dal 1966 al 1969, l’Italia non aveva mai raccolto alcun risultato utile in nessuna specialità. Mai nei primi tre posti, mai nemmeno nei primi dieci. Poi appunto, qualcosa cambiò radicalmente.

Già sul finire della stagione del ’69, la squadra azzurra poteva contare su molti dei nomi che ne avrebbero poi caratterizzato le gesta. Compreso quel Gustavo Thoeni che a Cortina, a soli 18 anni, arrivò a un passo dal podio dopo un’incredibile rimonta nella discesa libera pur partendo con un pettorale elevatissimo tra gli ultimi in gara. Ma è la strada giusta, per lui e per tutta la squadra.

E infatti poco prima del Natale dello stesso anno, prende il via la nuova stagione di Coppa del Mondo, che si apre in maniera storica per gli azzurri, visto che lo stesso Thoeni è il primo a vincere una gara, nello Slalom Gigante per l’occasione, e proprio davanti ai francesi in Val d’Isere che era dominio fino ad allora dei loro beniamini.

Troppo giovane ancora per poter ambire alla vittoria finale, ma fu sicuramente in quel 1970 che l’atleta prese sempre più coscienza dei propri mezzi, piazzando altre tre vittorie, tre secondi e un terzo posto in totale, che gli valgono la prima Coppa del Mondo nel Gigante. Un’impresa storica per lui e per l’Italia, che torna alla ribalta come ai tempi di Zeno Colò. Solo che questa volta siamo solo all’inizio ed è il movimento tutto a crescere.

Quei meravigliosi anni settanta

Le prime vittorie consolidano la posizione di Cotelli, che può ora allargare il suo metodo a tutto il comparto dello sci alpino italiano. Si intensificano gli allenamenti, puntando per la prima volta su una certa specificità in base alle singole discipline (motivo per cui si punterà più su quelle più tecniche come Slalom speciale e Gigante) e in generale cambia proprio il metodo di preparazione fisica degli atleti.

Metodi che danno subito i suoi frutti, visto che proprio nei primi anni settanta l’Italia è un punto di riferimento primario, diventando non solo la prima squadra da battere, ma portando anche uno stile tutto tricolore nel circo bianco (un comparto quello dell’abbigliamento sportivo invernale italico, che farà da traino per molti anni a venire).

Nella stagione di Coppa del Mondo del 1971, arriva il primo trionfo nella classifica generale per Gustavo Thoeni, ma anche i primi successi per una squadra che sta parimenti crescendo di tono (vedi il successo Stefano Anzi, primo italiano a vincere una gara di Coppa in discesa libera).

Successo poi bissato l’anno seguente dove dove tra i migliori dieci entra anche il cugino Roland Thoeni. Insieme i due porteranno a casa anche tre pesantissime medagli nelle Olimpiadi invernali di Sapporo, con un oro e un argento per Gustavo e un bronzo per Roland.

Sembra già un apice del successo italiano, ma siamo incredibilmente ancora solo agli inizi. Nel 1973 infatti non solo arriva la terza Coppa del Mondo consecutiva per Thoeni, ma si rafforza la posizione di molti altri elementi della squadra, tra cui Hellmuth Schmalzi, Erwin Stricher, Tino Pietrogiovanna e soprattutto l’arrivo nella nazionale maggiore di un giovanissimo e arrembante Piero Gros.

Apoteosi italica

Con la vittoria di Piero Gros nella classifica generale del 1974, seguito proprio da Gustavo Thoeni (che vincerà quella dello Slalom speciale) e con ben quattro italiani tra i primi nove, la “Valanga Azzurra” si è definitivamente presa la scena dello sci mondiale.

Ma non solo. Perchè le vittorie azzurre hanno anche profondamente cambiato il modo di vedere lo sci da parte della popolazione e dello spettacolo. Le cronache televisive in bianco e nero non sono il massimo per seguire al meglio, eppure le voci di Guido Oddo e Alfredo Pigna sono nella case di tutti gli italiani, incollati a seguire le gesta degli azzurri come fino a quel momento solo le imprese di Coppi e Bartali o della nazionale italiana di calcio erano riusciti a fare.

Lo sci e la settimana “bianca” sono entrate anche nella cultura popolare, e di conseguenza sono diventate protagoniste anche di cinema e spettacolo (da Paolo Villaggio ad Aldo Fabrizi). Tutte variabili che malgrado la crisi economica di quegli anni, contribuiscono a rendere più facile per Cotelli, indirizzare nuove risorse e nuovi sponsor verso lo sci italiano, dando vita a collaborazioni importanti per il futuro come quelle con la Lancia, con Alitalia o con la Parmalat.

Ed ecco allora che il cerchio si chiude, tornando a quel fatidico 7 gennaio del 1974, quando nello slalom gigante la truppa italiana raggiunse idealmente il suo apice facendo il pieno dei primi cinque posti della classifica, trasformandosi così nell’eterna e imbattibile “Valanga Azzurra”.

C’è tempo anche per uno degli epiloghi forse più emozionanti che la Coppa del Mondo ricordi, quello della stagione 1975. L’ultima gara infatti è uno Slalom Parallelo totalmente inedito per il circo bianco, reso ancora più incredibile dal fatto che tre contendenti arrivarono all’appuntamento in vetta alla classifica generale appaiati a 240 punti ciascuno (erano il nostro Thoeni, Stenmark e Klammer).

Una gara che ha visto oltre cinquantamila persone sulla pista di Ortisei a fare il tifo e un numero decisamente maggiore a seguire il tutto dalla televisione e dalle radioline. Quello che vedranno (o sentiranno) è l’apoteosi finale di uno spettacolo incredibile, con l’ultima sfida in parallelo tra l’eroe italiano, Thoeni, e il giovanissimo svedese Stenmark, che uscirà di scena solo nel finale lasciando la quinta Coppa del Mondo all’Italia (la quarta per Thoeni), rimandando però solo di un anno l’appuntamento con la vittoria.

I numeri da leggenda e la fine del mito

In soli sei anni, dal 1970 al 1976, la “Valanga Azzurra” riuscì a conquistare tutto quanto possibile nel mondo dello sci alpino. Oltre a cinque Coppe del Mondo generali, anche altre 6 di specialità (4 in gigante e 2 in slalom), 4 Ori ai mondiali (tutti di Gustavo Thoeni) oltre a 1 argento e 1 bronzo (tutti di Piero Gros), 6 medaglie Olimpiche (2 ori, 2 argenti e 2 bronzi) e un numero enorme di podi in Coppa (tra il 1970 e il 1980 saranno 166 in tutto, con 48 vittorie).

Insomma numeri in grado si spostare la freccia della storia verso il grado di leggenda e che potrebbero essere anche più ingranditi se nel conto mettessimo anche la “Valanga Rosa”, che parimenti in quel periodo pose le prime basi per un comparto in continua crescita (da Maria Rosa Quario a Paoletta Magoni e Claudia Giordani, ovvero la generazione grazie a cui abbiamo poi avuto le nostre Compagnoni, Kostner, Lara Magoni e compagnia a dare lustro anche al settore femminile).

L’epoca della “Valanga Azzurra” però, come tutte le cose dovette in qualche modo concludersi. E lo fece nella maniera più consona, ovvero trovando qualcuno ancora più forte a cui abdicare. Quel qualcuno fu Ingemar Stenmark, ovvero lo sciatore più vincente della storia dello sci alpino.

Nella seconda metà degli anni settanta, il gruppo italico piazzò ancora diverse bandierine sul podio, anche nel gradino più alto, ma non riuscì a fare nulla contro lo strapotere dello svedese che si aggiudicò per tre volte di fila la Coppa del Mondo.

Se a questo aggiungiamo anche la sfortuna di alcuni nostri giovani promesse come Leonardo David e Roberto Burini (scomparsi prematuramente) oltre a Bruno Gattai (fermato per un grave infortunio), ecco che molte speranze si spensero proprio su quel finire degli anni settanta.

Da lì in poi, dopo l’esaltazione delle vittorie, un lungo decennio di tante ombre e pochissime luci, interrotto solo dall’entrata in scena di un altro campione unico nel suo genere, Alberto Tomba.

Ma questa come si suol dire, è un’altra storia.