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Un detto popolare recita: «Non si può vivere di soli ricordi». «Ma almeno noi ce li abbiamo», rispondono in coro i tifosi dell’Hellas Verona, viva i gialloblu. I gialloblu sono loro, è ovvio. Quelli lì, gli altri, quelli del Chievo – o Chevo, come è d’uopo chiamarli da queste parti – neanche esistono un altro po’.

Da quando il Chevo è salito in Serie A, questo è solo il secondo anno in cui non partecipa al massimo campionato. È sceso in B, mentre l’Hellas non solo è salito in A, ma lo sta facendo da grande protagonista. Niente a che vedere, neanche a dirlo, con quel Verona che nella stagione 84/85 non fa sognare solo una tifoseria, financo un solo popolo, ma ancor più un’intera classe. Quale? Quella dei provinciali.

Le fondamenta del miracolo

Il patron Celestino Guidotti, a caldo, saluta la vittoria di quell’incredibile scudetto ringraziando tutti, e non potrebbe essere altrimenti: «Diciamo grazie ai giocatori tutti ma a Bagnoli sicuramente». Ma a Bagnoli sicuramente. Come a dire: lo Scudetto si vince sul campo, lo vincono i tifosi sugli spalti, lo costruisce la dirigenza; ma si fonda sull’uomo che siede in panchina. Bagnoli è esattamente questo: fondazione o meglio fondamenta. E non è un caso che lo stesso Bagnoli, accanto ai propri giocatori, faccia il nome di un uomo sugli altri: è Emiliano Mascetti, che al Cesena di Bagnoli aveva segnato due gol quando faceva ancora il calciatore. È il Verona di Lupo Vicentini, di Guidotti, di Mascetti, dei giovani e forti ragazzi di quel magico Hellas. È soprattutto l’Hellas Verona di Bagnoli, che qui non hanno dimenticato.

L’amicizia e la profonda stima che nasce tra Bagnoli e Mascetti altro non è, d’altronde, che lo specchio calcistico di una simpatia originaria tra Verona e Bagnoli. Quando Bagnoli riceve la chiamata del patron Guidotti, non ci pensa due volte ad accettare l’incarico. Per Bagnoli Verona è la città fraterna, la città del cuore e la città amata. La città dell’amata, soprattutto, visto che moglie e amici di Osvaldo sono tutti nativi di Verona. Quel che il presidente chiede al mister è sulla carta abbastanza semplice: salvezza.

Dopo la promozione in A, ci sono tanti cambiamenti. Il patron gialloblu vuole dare una ventata di aria fresca a tutto l’ambiente. Ci sono tanti giovani che scalpitano da tutta Italia. Giovani che sono stati rifiutati o quantomeno relegati a ruolo di comprimari nelle rispettive – e virtuose – società della Penisola. Potremmo chiamare questo vivaio nobiltà decaduta. È una sigla che ben si confà a gente come Piero Fanna, scuola Juventus, Luigi Sacchetti, scuola Fiorentina, Marangon, scuola Roma. Mai mettersi contro giovani affamati di riscatto. È una lezione che il nostro calcio non ha ancora imparato – i casi sono innumerevoli.

La vendetta dei giovani ripescati

Piero Fanna arriva all’Hellas che ha 23 anni. È un giocatore sublime dal punto di vista tecnico, ma è introverso e alla Vecchia Signora, quelli così, faticano non poco. Fanna è ambidestro. In realtà è anche ambisinistro. Davvero non si saprebbe dire, guardandolo palla al piede, quale dei due sia quello naturale. Con naturalezza, infatti, dribbla con entrambi i piedi, crossa alla stessa maniera, calcia con rara precisione. Ha una classe smisurata, e quell’ambiente lo aiuta a tirar fuori da sé il proprio superuomo. Per lui Guidotti spende oltre un miliardo delle vecchie lire. Mica male per un timidone. E Fanna, che è timido sì ma non scemo, tutt’altro, ammette senza indugi l’artefice della scintilla che lo infiammò: «Osvaldo Bagnoli, per me, è stato un padre». Non come un padre. Un padre nel vero senso della parola.

Un padre sa prendersi cura dei propri figli difendendoli dagli attacchi del mondo. Così, oltre a Fanna, Bagnoli sa prendere in custodia Luigi Sacchetti, che nell’82 aveva sfiorato, con la Fiorentina, un clamoroso Scudetto, conclusosi a favore della Juventus a pochi passi dal traguardo. Qual è il vero segreto di Bagnoli? Ce lo rivela la semplicità delle parole di Sacchetti, uno dei protagonisti, insieme a Fanna, dello Scudetto veronese: «Gli parlavi in faccia e il giorno dopo era tutto come prima». Sincerità, protezione, lungimiranza. Bagnoli ha doti di padre prima che di tecnico, di uomo prima che di tattico.

«Senza volerlo, centrammo l’obiettivo». Quasi senza volerlo, diciamo meglio. Bagnoli è modesto, modestissimo, nel pronunciare queste parole. La verità è che neanche quella gigantesca figura di Gian Piero Galeazzi riusciva a cavar fuori dal Bagnoli qualcosa che si avvicinasse ad una speranza scudetto, ad un’attesa soporifera, ad un sogno senza sonno. Niente di tutto questo. Partita dopo partita, fino alla (pen)ultima partita, quella contro l’Atalanta, giocata a Bergamo.

Per Guidotti è tutto molto semplice. Bagnoli ha qualcosa che nessun altro tecnico, all’epoca, possiede: «[la] capacità di entrare in sintonia coi giocatori». Niente tatticismi esasperanti ed esasperati, nessun grido fuori dagli schemi, nessuna dichiarazione fuori luogo, per far clamore. Bagnoli è tutto meno che una popstar. Al punto che, portato in trionfo dai propri ragazzi, a Scudetto ottenuto, neanche riesce ad alzare le braccia al cielo. La sua difficoltà ad ergersi come capopopolo è talmente evidente che quell’aria impacciata che sempre lo contraddistingue finisce per essere il simbolo di una vittoria divina, voluta cioè dagli dèi prima che dagli uomini. Ed ecco forse anche la ragione di quel «senza volerlo, centrammo l’obiettivo».

Gli assi stranieri

Con certi elementi, certo, vincere è stato più facile del previsto. Dopo due ottime stagioni concluse al quarto e al sesto posto, Mascetti e Bagnoli credono che ciò che manca al Verona per dichiararsi completa (o quasi, senza volerlo) è l’acquisto di una o due pedine che permettano alla squadra un salto fisico, prima che tecnico. Guardare all’estero sembra la soluzione migliore, e infatti arrivano Hans-Peter Briegel, Lo schiacciasassi, dai compagni docilmente soprannominato Manciapampini, e Preben Elkjaer Larsen.

Briegel si presenta a Verona con l’elmetto in testa, sempre puntuale agli allenamenti; non si lamenta mai. È l’ultimo ad andarsene, sempre. Con lui, ricorda Sacchetti, «ci si sente protetti, dentro e fuori dal campo». È il Leader di quella squadra pur essendo l’ultimo arrivato. E che il fisico e le doti fisiche – recupero palla, strappo in velocità, tenacia, resistenza da giocatore moderno – non distolgano il lettore dalle enormi qualità tecniche. Briegel è un asso, in tutti i sensi. Un giocatore assolutamente imprescindibile per Bagnoli e l’Hellas. Il suo mancino non è quello di un difensore ma quello di un centrocampista. Ecco perché Bagnoli lo sposta a centrocampo, con risultati discreti. Quell’anno segna nove gol. Potrebbe farne altri. Ma son già numeri da capogiro.

È un matto scatenato, Briegel. Ma Bagnoli sa come calmarlo. Sa cosa dargli e quando. È in grado di capire le richieste del giocatore; riesce a disciplinarlo fin da subito. La prima partita di Maradona in Italia, al Bentegodi, se la ricorda bene, quel Briegel. Maradona se la ricorda meglio, però. Finirà 3-1 per l’Hellas Verona. Di Gennaro segna il gol della sicurezza. Una vittoria costruita su due colonne: la difesa e l’attacco gialloblu, che già in quella partita dimostra la sua dimensione totale – si attacca cioè da tutte le parti e tutti attaccano all’unisono.

Tutti ricordano, di quella stagione, il gol di Preben Elkjaer Larsen contro la Juventus. Un gol che ha del miracoloso o quasi, il celebre gol senza scarpa.

Il portiere veronese Garella, poi da Scudetto proprio con Maradona, rilancia lungo col mancino trovando Larsen sulla fascia sinistra. Quest’ultimo supera uno stanco Stefano Pioli il quale, nell’allungo, rischia di staccargli la caviglia ma ottiene come unico risultato quello di toglierli lo scarpino destro. Nessun problema. Larsen controlla in area, rientra sul destro nudo e trafigge in caduta il portiere avversario. Il Bentegodi esplode, l’Hellas ha vinto, ha battuto la Juventus. Alleluja. Scudetto? Non sia mai, siamo solo al 14 di ottobre.

Verso l’incredibile Scudetto

Nessuno crede al Verona, d’altra parte. Certo, è la sorpresa del campionato, può essere senz’altro una bella sorpresa, ma lo Scudetto è una montagna altissima da scalare. E poi il Verona dovrebbe vincere tante partite, davvero troppe per una squadra che mai è stata abituata a certi livelli e a certe pressioni. La stampa lo sa e, inizialmente, tace. Quando scopre che il Verona è davvero lì, però, spaventata dall’andazzo alquanto particolare di quella stagione, inizia a parlare di Scudetto anche Lei, mettendo pressione eccome sui ragazzi di Bagnoli.

Dopo la sconfitta con l’Avellino all’ultima di andata, la partita della svolta, almeno agli occhi dell’ex Sacchetti, è il 3-1 in casa alla Fiorentina. Neanche a dirlo, tutte le partite con le piccole, escluso l’inciampo sul campo campano dei Lupi Verdi, il Verona le vince e le stravince, costruendo il suo scudetto tra le proprie mura. Perderà una sola partita, in casa: quella contro il Torino. È una squadra, l’Hellas, che segna tantissimo.

Ne fa 5 all’Udinese in una partita folle, ma in che ordine? 3-0 Verona, 3-3 Udinese, 3-5 Hellas. Come a dire, e lo dirà proprio Fanna: la nostra forza è quella di fermarsi e riprendere a giocare a nostro piacimento. Quando vogliamo, vinciamo noi.

Fondamentale nella tappa al titolo anche il pareggio per 1-1 contro l’Inter. Il vantaggio di Spillo Altobelli non scalfisce l’orgoglio scaligero. Il pareggio dopo 2’, dopo il discorso nell’intervallo di Bagnoli («loro hanno sempre subito almeno un gol. Se ne facciamo due vinciamo la partita») – discorso che, per inciso, dimostra una volta in più la straordinaria capacità dialettica e psicologica di Bagnoli –, è il simbolo di una coesione che non ha eguali nella storia del nostro calcio. Una mente unica, quel gruppo di Verona. Un corpo omogeneo, con a capo lui, Osvaldo Bagnoli.

Con il pareggio a Torino con la Juventus l’Hellas si proietta verso il titolo. Al gol del vantaggio risponde Di Gennaro con una botta dai 30 metri. A 5 domeniche dalla fine l’Hellas perde in casa col Torino, ma niente può più fermare quei giovani vogliosi di riscatto, ad un passo dal termine della grande corsa.

Dopo aver battuto una Lazio senza troppe motivazioni a pochi minuti dalla fine – grazie a un gol di Fanna che esulta da centometrista, andando sotto la propria tribuna e scappando nell’esultanza persino ai compagni di squadra –, il 12 maggio del 1985 l’Hellas Verona ha bisogno di un solo punto per vincere il titolo. In casa dell’Atalanta. Inutile descrivere il tratto di strada che va da Bergamo a Verona. Una fila infinita, un traffico mai visto, un’attesa che, nelle parole dello stesso Bagnoli, adesso si faceva sentire eccome. Al gol del vantaggio bergamasco, laddove ci si poteva attendere il contraccolpo psicologico della banda Bagnoli, risponderà la reazione posata, tranquilla, serena, consapevole e audace dell’Hellas Verona. Il gol di Larsen al 51’, sotto il settore dedicato ai veronesi, rimane uno dei momenti più emozionanti del nostro calcio e, Leicester permettendo, una delle storie più incredibili di questo meraviglioso sport. Vincere da fenomeni, senza saperlo.